Perché l'umanità di "Il sorpasso" non andrà mai in pensione

Il contundente contrasto generazionale, l'autoreferenzialità dei personaggi, la speranza della ripresa dopo la fame: era l'Italia sessant'anni fa, potrebbe essere oggi

Perché l'umanità di "Il sorpasso" non andrà mai in pensione
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Prendiamo i fatti. C'è un quarantenne che detesta l'idea di maturare e si rannicchia nelle piccole gioie materiali della sua vita. E c'è uno studente universitario che fatica a decriptare i suoi messaggi, perché gli sembra di essere già sintonizzato su altre frequenze. C'è la placida e svuotata estate romana. Ed un Paese che crepita e si risolleva, dopo le sciagure passate. A pensarci bene "Il sorpasso" dimostra meno rughe di quelle che recita il suo sgualcito documento d'identità. E pare maledettamente attuale ancora oggi, oltre sessant'anni dopo, nel suo raccontare una storia perennemente oscillante tra la commedia e il dramma all'italiana.

Esiste un elemento di squilibrio nel film di Dino Risi che, in fondo, riproduce le fattezze sghembe della vita. Il Bruno Cortona interpretato da Vittorio Gassman è straripante. Troneggia e appanna l'altro potenziale protagonista, il Roberto Mariani di Jean - Louis Trintignant, più docile, dimesso, ma comunque necessario. Cortona è un irrisolto che prova a mascherare le sue lacune con la schermatura dei beni che ti fanno sentire meglio almeno in apparenza, come la Lancia Aurelia decappottabile con cui tagliano lingue d'asfalto arroventate.

Mariani è ancora in cerca di se stesso e prova a trarre da quella sorta di fratello maggiore le istruzioni per l'uso, senza restarne del tutto soddisfatto. Sullo sfondo un paese sospinto dal boom economico di fine anni Cinquanta. Quel 1962 è affollato da televisori, lavatrici, nuove vetture, orpelli e sintomi di un consumismo gioiosamente dilagante, dopo gli anni degli stomaci in affanno.

Quella macchina diventa una sorta di arcipelago emotivo. Un luogo metafisico dove riversare aspettative e sogni infranti. Il posto giusto per relativizzare e accettarsi almeno in parte. "A Robè, che te frega delle tristezze" è la frase che scuote le coscienze di generazioni intere. Perché bisogna raccontarsi - e magari pure crederci - che l'età migliore è davvero quella che uno c'ha. Un antidoto contro le derive depressive da cui nessuno resta immune. Eppure, tra le pieghe della dissacrante commedia italiana, si nasconde il dramma di chi ancora non ha compreso la sua strada, reso forse ancor più aspro dalla circostanza che magari potresti non fare in tempo a capirla mai. E la sensazione, potente, che i personaggi siano così concentrati su loro stessi da non riuscire a seguire il caravanserraglio che gira intorno, smarrendo così una porzione di mondo, storie e dunque vita, irrecuperabile.

Ma la geniale sceneggiatura di Scola, Risi e Maccari vuole ottenere proprio questo. Un'emozione senza data di scadenza che sa essere riga e anche carezza, proprio come l'esistenza. L'importante è che ti sposti. Riconoscersi nelle paturnie e nelle improvvise esaltazioni di Bruno e Roberto è facilissimo.

Perché raccontando l'Italia "Il Sorpasso" racconta gli italiani e forse, a ben vedere, l'intero genere umano. Che non pare cambiato di una virgola, nemmeno sessant'anni dopo. Il foglietto illustrativo non ce l'ha ancora nessuno.

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