
La Mostra del Cinema di Venezia è diventata il nuovo palco d'eccezione per i pro Pal, soprattutto quelli nostrani. Sembrano lontani i tempi in cui tutte le attenzioni erano dirette al cambiamento climatico: ora la nuova moda è schierarsi a favore della Palestina. Ci si potrebbe chiedere quanti di quelli che oggi fanno i proclami e firmano gli appelli sanno davvero cosa sia la questione arabo-israeliana e quanti invece lo facciano solamente per mero engagement. Ma meglio non farsi queste domande, perché le risposte potrebbero deludere molti sul reale interesse di questi personaggi verso le questioni sociali.
Il perbenismo diffuso nel mondo dello spettacolo impone di schierarsi dalla parte che, in un dato momento, sembra essere quella "giusta", quella che occorre rincorrere per continuare a far parte del "circolino". Il risultato è una serie di dichiarazioni monocorde, prive di una reale diversità di pensiero. Non si tratta più di un dibattito, ma di un allineamento a un'unica narrazione, a discapito della complessità e delle sfumature che possono esistere solamente laddove ci sia un reale interesse. Questo apparente conformismo non solo svuota di significato la protesta, ma contribuisce anche a creare una narrazione semplicistica di un conflitto che non ha mai avuto e mai avrà una sola verità. In questo modo, il grido di dolore di un popolo rischia di diventare nient'altro che il sottofondo di un servizio fotografico per una rivista di gossip. Durante la manifestazione pro Pal che si è tenuta a Venezia sabato, partecipata anche da alcuni artisti, alcuni di loro hanno perfino rivendicato la richiesta di escludere dalla Mostra attori considerati troppo vicini a Israele come Gal Gadot e Gerarld Butler: una vergogna tutta italiana che ben rappresenta il momento storico.
Questo non è più un dibattito, se mai lo è stato, ma un aut aut. Se non sei con noi, sei fuori. Certo, Gal Gadot e Gerard Butler non hanno bisogno della vetrina di Venezia per far sapere al mondo che esistono e che hanno un talento nel proprio lavoro, cosa che non possono dire tutti quelli che negli ultimi giorni hanno praticato l'attivismo meno convincente e utile. È la manifestazione più evidente di un dogmatismo che non ammette repliche, un'intolleranza che si maschera da progressismo. Chi si fa portavoce di queste istanze sembra non comprendere che un'arte libera non può sopravvivere se le viene imposto un pensiero unico. Quello che dovrebbe essere un luogo di scambio culturale e di confronto si trasforma in un teatro di posizioni ideologiche estremiste, dove il dissenso viene prima etichettato e poi escluso.
In questo contesto, le figure di artisti e intellettuali, che un tempo erano punti di riferimento per l'apertura mentale, si riducono a semplici megafoni di una narrazione imposta, perdendo la loro credibilità e il loro ruolo di mediatori. E non è più arte.