Già come Tour era uno sgorbio. Adesso ha pure un vincitore fasullo. In attesa della solita, stucchevole guerra di carte bollate, conviene restare all'unico risultato certo e acquisito: anche il Tour 2006, che troppo frettolosamente i faciloni del commento televisivo ci avevano dipinto come primo dell'era pulitissima, finisce nella spazzatura. Con il Tour, il suo bel vincitore: pieno di testosterone, ci faceva anche la morale, raccontando di come avesse imparato dai suoi genitori a non barare mai. O i genitori si sono spiegati male, o lui può andare tranquillamente al diavolo.
Guardiamola: la catasta dei detriti si sta facendo immane. Il ciclismo si presenta come la Napoli di questi giorni, soffocato dai rifiuti accumulati anno dopo anno, senza sapere ancora bene come smaltirli. Caso mai qualcuno non cogliesse del tutto la pesantezza del momento, basti ricordare un semplicissimo dato: i vincitori dell'ultimo Giro e dell'ultimo Tour, cioè delle due corse più importanti al mondo, giacciono entrambi nella polvere, impallinati da sporche faccende di doping. Poco giova, a noi italiani, sostenere che Basso è nei guai per confuse intercettazioni telefoniche, mentre Landis è finito dritto nella rete dell'antidoping. Conta il risultato pratico: dopo dieci anni di scandali, dopo il caso storico e tremendo di Pantani, siamo ancora qui a raccattare cocci. Appena si profila all'orizzonte un campione, subito lo vediamo tramutarsi in un inquisito. Forse, di fronte all'incredibile sequenza, basterebbe lanciare un solo grido: per favore, giù il sipario.
Davvero la fermata sarebbe logica e giustificata. Uno stop di qualche tempo per rifletterci un po' sopra e cambiare almeno quattro cose. Per esempio, unificare le regole: poche e uguali ovunque. Ma c'è un problema, il solito problema: lo stop significherebbe fermare anche gli onesti, quelli che non barano, quelli che si ostinano a competere con armi proprie. Fossero soltanto dieci, non sarebbe giusto rovinare anche loro. È un discorso giusto, che va accettato, anche se bisognerebbe chiedere agli onesti quanto senso abbia continuare a gareggiare facendosi prendere per il naso dai truffatori. Ma forse si andrebbe troppo lontano, fino alla psicanalisi.
Che fare, allora? Ogni volta ce lo chiediamo. E ogni volta ci ritroviamo a dire che il doping è un problema eterno, di tutto lo sport. Ma nel ciclismo il problema è più problema: questo doping è incistato nel Dna del sistema globale e del singolo individuo. Chiamato ipoteticamente a rispondere con la macchina della verità, un ciclista qualunque, un diesse qualunque, un massaggiatore qualunque, risponderebbe così alla domanda «che cosa serve per fare ciclismo?»: servono una bicicletta, tanto allenamento e una buona farmacia, perché si fa una fatica mortale. Ci sono corridori che prendono doping non per vincere, ma per la semplice paura di non essere all'altezzza del mestiere. Così bisogna fare: bici, allenamento, una buona farmacia. È dura rompere gli automatismi secolari.
Mettiamoci il cuore in pace. Fermare il doping non si può. Si possono solo fermare i dopati, quando ci cascano. È come in autostrada: il limite di 130 non serve certo a stabilizzare tutti a 129, ma soltanto a castigare quelli che si fanno pizzicare. L'antidoping, come il limite a 130, è un forte deterrente, non una soluzione del problema. Anche perché, diciamola tutta fino in fondo: la scienza dell'antidoping, rispetto al doping, è come la polizia che arriva quando i banditi hanno già vuotato la cassaforte. Ci abbiamo messo un decennio per mettere a punto il sistema che trova l'Epo: nel frattempo, i dopati viaggiano già spensierati nelle sterminate praterie degli ormoni e dell'emotrasfusione.
Come finirà? Se i ciclisti non si placano da soli, finiranno per restare senza mestiere, perché alla lunga un ciclismo come questo abbasserà la saracinesca.
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