Axl, salto nel vuoto del kamikaze rock

nostro inviato a Madrid
Ma guarda, da lontano sembrano davvero i Guns N’Roses. Axl Rose è lui, proprio lui rinato dopo il buio, si muove, anzi ondeggia come sempre, le sue treccine biondo tiziano sono fasciate sulla nuca e si appoggiano sulla giacca coi ricami da torero e pazienza se a 44 anni è un po’ imbolsito: il rock ti mantiene snello se vivi on the road ma ti fiacca se rimani nel tuo ranch sulla Latigo Canyon Road di Los Angeles.
Da tredici anni è l’ultimo dei kamikaze rock e, salvo qualche uscita qui e là, vive alla ricerca della perfezione nel disco che (forse, chissà) uscirà in autunno, Chinese democracy. Comunque, ora il guscio s’è rotto, Welcome to the jungle, benvenuti nella giungla, come recita il primo brano di stasera, che è pure il primo del loro debutto, Appetite for destruction del 1987, e allora bisogna prender la vita «giorno per giorno» perché «niente è vero e tutto è permesso». Stasera anche i musicisti, che sono tutti semisconosciuti o semibolliti a parte il tastierista Dizzy Reed che è in ballo con i Guns da quasi vent’anni, sono la fotocopia del passato: visti da lontano, i chitarristi hanno la stessa fisionomia del guascone Slash e dello scricciolo Izzy Stradlin, il batterista ha i muscoli di Matt Sorum, al basso si agita un ragazzo sgangherato e variopinto come Duff McKagan. Ma sono fantasmi. E il palco, poi, è su due piani, come nell’Use you illusion tour del ’92/93, quando i Guns N’Roses suonavano sul tetto del mondo ma ormai vivevano nelle cantine dei pusher e lui, Axl, stava per finire nelle mani di Yoda, ossia la santona Sharon Maynard che si faceva pagare conti da 271mila dollari perché «bisogna proteggerlo dalle forze magnetiche». Ci fosse stasera, qui all’Auditorio Juan Carlos I a Madrid, la santona avrebbe dovuto concentrarsi molto perché il concerto è iniziato con due colpevolissime ore di ritardo, a mezzanotte in punto, e invece che applausi sul palco avevano iniziato a piovere sedili di plastica e «hijo de puta» urlati in coro dai dodicimila. Axl, che nella voce felina prima di cucciolo poi di belva schiaccia tutte le ossessioni del vizio, era nella sua suite al Melia Madrid Princesa, senza riuscire ad emergere, murato vivo dalla paura. Gli organizzatori del concerto fuori, a pregarlo. Quando sale sul palco, la platea zittisce e si consegna subito docile a questo Modigliani del rock che canta It’s so easy e poi Mr Brownstone arrotolando la voce e godendo dei suoi acuti prima che lo show si mostri per quel che è: la messinscena dello psicodramma di Axl Rose, il cantante che tra la fine degli ’80 e l’inizio dei ’90 ha dato al rock duro la rabbia malinconica e sconclusionata che gli mancava, poi ha sfasciato tutto ritirandosi nell’isola che non c’è a combattere la guerra che ora arriva in Europa (saranno a Milano il 4 giugno al «Gods of Metal», il Festival che dall’1 raccoglie Whitesnake, Motorhead, Korn, Alice in Chians). «Il mio nome è El Matador», dice subito stasera, quando ancora si sente di esserlo, o ci crede. Poi, dopo le fiammate di Live and let die (di Paul McCartney), la monotonia di Better, l’arrancante Sweet child o’ mine (dove si cambia la giacca, ora blu) e l’imbarazzante Knockin’ on heaven’s door di Dylan, Axl Rose sparisce dietro alla sua voce, va avanti e indietro dal palco, si consegna al suo gruppo di musicisti che sembrano la cover band dei vecchi Guns N’Roses: pretenziosi, rigidi, slegati, piccoli puntini semoventi sul palco. Il suo volto si è gonfiato dietro gli occhiali da sole, la voce sembra appesa ai ricordi che una versione slacciata di You could be mine rendono quasi dolorosi e l’inedita The blues fa sprofondare nel silenzio. «Questo non è il pubblico spagnolo, durante i concerti c’è una baraonda infinita, qui sono tutti fermi» sospirano dietro al mixer. E così, quando Axl si siede al pianoforte e inizia legnosamente a suonare gli accordi di November rain, che era la straordinaria romanza rock di un amore nebbioso, la giacca è sparita, sotto la t-shirt ci sono i tatuaggi di una volta, ma i muscoli sono stanchi, tremebondi, ingolfati di solitudine. My Michelle, niente. Patience, niente. Bisogna riprender fiato, ci vogliono gli assoli monotoni dei chitarristi per trovar la voce in fondo ai polmoni e il coraggio di tirarla fuori.

Quando ritorna, Axl Rose si esalta (ed è esaltante); stravolgendo I feel good di James Brown, incasella Nightrain e poi Paradise city prima dei botti finali che alle due e mezza di notte svegliano mezza Madrid ma non la gloria dell’ultima grande banda di rock demolita dalla rincorsa impossibile. Alle 3, Axl è in stanza, di nuovo. Alle 4 riparte per Lisbona, con gli occhiali da sole come il solito, per non farsi abbagliare dal riflesso maligno della nostalgia.

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