Gli ayatollah attaccano Berlusconi: «Sta con Sakineh perché è corrotto»

Berlusconi è un corrotto, anzi è il capo della mafia. No, non è l’abituale ritornello della monomaniacale sinistra italiana: stavolta le accuse infamanti arrivano dall’estero e per la precisione da un Paese, l’Iran, il cui governo è abituato a esprimere le proprie posizioni facendole addirittura precedere da un categorico «In nome di Dio». Non è direttamente il governo di Teheran, ma un giornale molto vicino alla guida suprema del regime, l’ayatollah Khamenei, e al presidente della Repubblica islamica Ahmadinejad, ad attaccare personalmente il Presidente del Consiglio.
È il solito Kayhan, insomma, quello che nei giorni scorsi ha dato della «prostituta italiana» alla moglie del presidente francese Sarkozy, Carla Bruni, la quale si era permessa di prendere le difese di Sakineh Ashtiani, la donna iraniana condannata al medievale supplizio della lapidazione. Non soddisfatto, il giorno dopo Kayhan aveva rincarato la dose augurando alla Premiere Dame di morire come la signora Ashtiani, perché «immorale» come lei.
La vicenda si è nel frattempo sviluppata e lo stesso governo italiano ha preso posizione a sostegno della signora Ashtiani, che ormai in Occidente tutti conoscono e chiamano quasi familiarmente Sakineh. Il figlio della donna ha fatto appello alle istituzioni e ai media occidentali perché difendano sua madre, asserendo che in mancanza di questo sostegno la sua sorte sarebbe segnata. Intanto dall’Iran arrivavano notizie inquietanti: Sakineh avrebbe subito nel carcere dove è detenuta torture psicologiche infami, come il falso annuncio della sua esecuzione all’alba del giorno dopo, per cui la povera donna aveva dato in lacrime l’addio alle sue compagne di cella, salvo poi scoprire che si era trattato di un crudele espediente per farla soffrire. Ha fatto seguito l’annuncio di una nuova condanna emessa ai suoi danni da un giudice che si occupa della cattiva condotta in prigione per «diffusione della corruzione e dell’indecenza»: 99 frustate perché un giornale inglese ha pubblicato il 20 agosto la foto di una donna senza velo in cui sarebbe stata riconosciuta (erroneamente: il London Times ha smentito) Sakineh.
Ma era dall’Italia che arrivavano le iniziative più sgradite al regime. Una mobilitazione sempre più ampia del mondo politico, tante manifestazioni per Sakineh nelle nostre città, perfino fiori inviati dal capitano della squadra di calcio della Roma, Francesco Totti, e dalla sua società. Il governo di Teheran ha replicato irritato annunciando un mese di boicottaggio delle notizie sulla AS Roma, accusata di «interferenze» manco fosse un governo straniero. Ma non sapeva come reagire all’appello per Sakineh delle ministre italiane Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Giorgia Meloni e Stefania Prestigiacomo e alla presa di posizione del ministro degli Esteri Franco Frattini.
Così si è di nuovo affidato all’elegante Kayhan, che non si è fatto pregare. Ed ecco gli attacchi in prima pagina a Silvio Berlusconi «simbolo della deviazione morale in Italia», «capo della mafia italiana che si è unito ai difensori del crimine», un uomo del quale si leggono «nella stampa italiana ed europea le prove della dissolutezza sessuale». Questo per il premier, che tra l’altro secondo Kayhan avrebbe anche chiesto «a una delle squadre di calcio sotto la sua influenza di scendere in campo con polsini verdi» a difesa di Sakineh. Alle ministre viene invece riservata una “simpatica” allusione: sono state messe al loro posto proprio per via della «deviazione morale del premier».
Ieri gli ultimi capitoli della vicenda, insulti a parte. Il figlio di Sakineh ha fatto appello al governo italiano e al Vaticano perché intervengano in favore della madre.

Frattini ha risposto chiedendo nuovamente a Teheran «un gesto di clemenza nel pieno rispetto della sovranità iraniana» e dalla Farnesina si assicura che la diplomazia italiana è da tempo al lavoro per questo risultato: Frattini sarebbe anche pronto a incontrare il collega iraniano Mottaki. Toni più soft di quelli scelti dall’Eliseo, dunque, proprio per mantenere aperti i canali diplomatici. Quelli che anche la Santa Sede non esclude di attivare, naturalmente «non in forma pubblica».

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