Aztechi, dove vola il serpente piumato

Richard Townsend illustra origini, storia e tramonto della civiltà mesoamericana

Aztechi, dove vola il serpente piumato

Juan de Zavala, spadaccino, sfrontato rubacuori e fazendero, vive nel Messico di inizio ’800. La sua superbia di caballero è ingigantita dalla coscienza di essere anche un gachupín, spagnolo schietto, di rango alto rispetto ai criollos, discendenti degli ispanici nati in Messico, ben lontano dai reietti mestizos, i sanguemisto frutto delle relazioni tra europei e nativi, quasi una divinità nei confronti degli indios, strame etnico e sociale dell’amalgama coloniale.
Il mondo di Juan crolla quando apprende di essere un azteco, scambiato nella culla con il vero hidalgo. Ma la sua tempra, generosa e avventuriera, lo spinge a combattere dalla parte della gente propria, gli indios oppressi, per un utopistico riscatto, un irreale ritorno agli splendori di Tenochtitlán, lacustre capitale dell’impero azteco, i cui ruderi oggi si sfanno sotto i selciati, le cattedrali cattoliche e le plazas di Città del Messico, dove Motecuhzoma (così si traslittera il nome in nahuatl, la lingua dei mesoamericani, dell’ultimo vero re atzeco, perito nel 1520) non versa più sangue cerimoniale dalla piramide che imita i coni vulcanici, panneggiato nel fiabesco mantello di piume e di giada, e Quetzalcoatl, sire primordiale divinizzato in serpente foriero di vita, non conserva un briciolo dell’antico potere. La rabbia eroica di de Zavala incendia le pagine del romanzo di Gary Jennings, La furia dell’Azteco, quarto e ultimo atto dell’epopea messicana dello scrittore americano.
Il cosmo azteco è già tutto in quelle pagine. Ma se ne vogliamo un resoconto storico e culturale, scientificamente organizzato e completo, possiamo attingere al compendioso Gli Aztechi di Richard Townsend, archeologo di penna forte, che di quei luoghi incantati, la valle del Messico, con i laghi Tetzoco, Xochimilco, Chalco, ora sepolti sotto la megalopoli, ci regala visioni corpose e policrome, di uno che vi ha vissuto e lavorato, su ogni terreno, anche il più impervio, oltre i quattromila metri delle sierre che, come sipari puntuti di picchi ghiacciati, inquadrano su tre lati il regno azteco, che solo a Nord si apre verso le steppe più aride dell’altipiano. Pregio non da poco, perché molti siti non avevano mai conosciuto la pala dello scavatore.
Come il tempio sulla catena del Tlaloc, la montagna della vita, mappato da Townsend, che vi ha riconosciuto un sacrale ombelico del mondo, fulcro di riti regali che ogni anno, tra aprile e maggio, richiamavano l’augusto officiante, il re di Tenochtitlán, a scalare la vetta, per chiamare a raccolta l’acqua «maschile», dal cielo e dalle nubi, pronta a fecondare i solchi, mentre presso le acque della «Grande Madre», il lago Tetzoco, liquida culla della capitale, tra strade rialzate, dighe, canali, fertili chinampa (orti galleggianti, circondati da salici), una vergine, «Gonna di Giada», personificava l’energia materna e femminile dell’acqua freatica, dei pozzi e delle sorgenti, prima di irrorare con il suo sangue le onde.
Cruento rito, che sgomentò gli Spagnoli, come la «teca dei teschi», tzompantli, dove si esponevano, a migliaia, i crani dei nemici abbattuti, minacciosa parata di un governo fondato sui tributi coatti. Ma segno, anche, di un imperituro legame tra il popolo e la terra, tra la scena sacra che annualmente ricreava il mito degli eroi fondatori e il cambio di stagione, dall’arido gelo all’umida calura della ricca fase agricola. Questo sugli Aztechi è un pregiato tassello del mosaico rinascimentale. Non solo perché Hernán Cortés, oltre che avido conquistador, era un uomo del suo tempo, che ragionava nel latino appreso a Salamanca e fantasticava di rinverdire una potenza cristiana superiore perfino a quella della classica Roma, ma anche perché il suo soccombente rivale, Motecuhzoma, era a sua volta certo di far rinascere l’epoca d’oro degli avi Toltechi.


La sua «guerra fiorita», migliaia di combattenti pronti a cadere come petali sul campo dell’onore, poco poté contro le corazze e le picche di 500 soldati europei, con la disciplina della conquista. Fiori contro bocche da fuoco. E Tenochtitlán, in cenere, fu costretta a parlare e pensare in spagnolo.

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