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Bagdad, la guerriglia pone le condizioni: pace contro il ritiro Usa

Un ex ministro sunnita si fa portavoce delle richieste dei ribelli. Chiesto anche il rilascio dei detenuti non ancora giudicati colpevoli

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Ha parlato per mezz’ora, interrotto una volta sola dagli applausi. Non ha promesso nulla né ai suoi ascoltatori diretti della base militare di Fort Braggs né al grande pubblico. Per questo alcuni commentatori hanno avuto l’impressione che George Bush nel suo ultimo discorso sull’Irak, non abbia «detto nulla di nuovo» e non abbia «delineato una strategia». Penso si tratti di una impressione inesatta: il presidente la strategia ce l’ha e l’ha avviata proprio con la sua allocuzione ai soldati. Ha avviato, anzi, una nuova «offensiva». Solo che i destinatari non sono iracheni ma americani e l’offensiva è invece essenzialmente difensiva. E la parola chiave non va ricercata nelle promesse specifiche o in una visione del futuro dell’Irak (che non è cambiata anche se è diventata assai più nebulosa per quanto riguarda i tempi), ma in un richiamo al passato. Per ben otto volte, quasi ossessivamente, l’uomo della Casa Bianca ha parlato dell’11 settembre 2001 come data che ha cambiato tutto, come evento da cui ogni sua decisione dipende e cui ogni sua strategia si riferisce: «Le nostre truppe intorno al mondo combattono una guerra globale al terrore che ha raggiunto le nostre spiagge l’11 settembre 2001. Presi allora con il popolo americano un impegno: questo Paese non aspetterà di essere attaccato di nuovo. Porteremo la guerra in casa del nemico».
In apparenza nessuna parola nuova. Ma il messaggio di Bush va letto in codice: è il rifiuto di affrontare una discussione sull’Irak in quanto tale. È la giustificazione, anche preventiva, di un prolungamento indeterminato del conflitto. Bush ha parlato del giorno delle Torri gemelle come se fosse ieri, ma il suo intervento era stato preparato da alcuni attacchi a fondo contro oppositori e critici, che «non avrebbero avuto la stessa reazione nostra» a quel tragico evento. Dunque sarebbero rei di scarso patriottismo. In realtà la risposta dell’America agli eventi dell’11 settembre 2001 fu unanime. Le critiche sono venute dopo e ultimamente sono più frequenti, rispecchiando dubbi crescenti sull’efficacia e la saggezza dell’impresa militare in Irak. Non è stato un democratico ma un repubblicano dell’ala più conservatrice a presentare al Congresso una risoluzione che dovrebbe impegnare l’amministrazione a fissare una data per il ritiro delle truppe. Si tratta del deputato Walter Jones che propose di togliere dal menu del ristorante del Congresso le «patatine alla francese». E sessanta americani su cento pensano oggi che nella guerra in Irak ci sia qualcosa di sbagliato. Per contrastare questa tendenza il discorso di Bush è stato, con tutte le sue inesattezze più o meno deliberate, probabilmente efficace. Non forse a rovesciare la tendenza ma a rallentarla o addirittura a bloccarla, cioè a far guadagnare tempo al presidente.
Perché questo è il suo principale obiettivo in questo momento. Le operazioni militari a Bagdad e dintorni vanno male e lo stesso Bush in pratica lo ha ammesso; ma notizie incoraggianti sembrano venire dal settore politico. Come ha riferito Bush, la costruzione di un Irak democratico va avanti nonostante tutto e saranno le istituzioni a decidere le sorti del Paese. Buone notizie sono dunque attese, dice Bush.
Cattive ne arrivano dall’altro teatro della guerra al terrorismo: l’Afghanistan. Fonti del Pentagono confermano il timore che siano morti i 17 militari Usa che erano a bordo dell’elicottero abbattuto martedì, pare da fuoco amico.

Dopo lo schianto su una montagna, il relitto sarebbe precipitato in un dirupo: difficile localizzarlo, ma è improbabile che ci siano superstiti.

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