Dal banco di cambio alla grande cultura a colpi di mecenatismo

Dall'Impero romano passando per i Medici sino ad oggi c'è un filo rosso di creatività

Dal banco di cambio alla grande cultura a colpi di mecenatismo

Prima di stabilire che il denaro non olet, come si dice abbia intuito l'imperatore Vespasiano, prima ancora che il tempio Artemisio di Efeso diventasse a tutti gli effetti quello che noi consideriamo una banca, esisteva un problema economico fondamentale. Capire che valore dare alle cose... Perché solo ciò che vale si scambia.

Beh non si offendano generazioni di esteti ed accademici, ma capita spesso che la bellezza sia di valore e che per questo piaccia a mercanti e banchieri. Che abituati a stimare le cose siano tra i primi ad avere i mezzi, materiali e culturali, per tesaurizzare il bello.

C'è una bella fetta di cultura e letteratura che non avremmo se non ci avessero opportunamente messo le mani loro, quelli che maneggiano i soldi. Soprattutto in quelle epoche in cui le banche erano ancora una cosa di famiglia, molto umana. Prima delle fondazioni (che fanno un bel lavoro rispettabile e istituzionale, ci mancherebbe altro) l'artista e il suo mecenate davano vita ad una simbiosi che è la negazione dell'accumulazione gretta, che pure esiste e sempre esisterà. Del resto l'idea stessa del mecenate deriva da un nome proprio, quello di Gaio Clinio Mecenate (68 - 8 a.C.). Politico romano proveniente dall'ordine equestre, formato da facoltosi cittadini che non erano né plebei né patrizi e che spesso facevano i pubblicani, vantava ingenti ricchezze accumulate nel tempo. Le usò per dare quella patina di evergetismo alto che caratterizzò il circolo dell'imperatore Augusto e lenì le ferite della guerra civile, avvolgendole nel sogno - fugace - di una nuova età dell'oro. Basta qualche nome per dar conto del gusto di Mecenate per il bello: Orazio, Virgilio, Properzio, Lucio Vario Rufo, Cornelio Gallo, Aristio Fusco, Plozio Tucca, Valgio Rufo, Domizio Marso, Quintilio Varo...

Ma è nel Medioevo che il legame tra banca e cultura diventa più stabile e solido. Accade nelle città italiane dove ci sono mercanti, che possono più dei Re, che quella nobiltà che non portano nel sangue vogliono appendere alle pareti o mostrare nelle feste. Nascono forzieri della bellezza, e devono essere per forza forzieri aperti. Generosità o politica? Entrambe. Non avremmo il capolavoro di Giotto se Enrico degli Scrovegni non avesse temuto per la propria anima a causa delle ricchezze accumulate con attività creditizia, ossia a usura, per come la vedevano gli uomini del Medioevo che consideravano il tempo proprietà di Dio.

Può aiutare a capire come si muovessero le grandi famiglie di mercatura e di banca il saggio appena pubblicato da Angelo Pontecorboli Editore e a firma di Silvia Diacciati: Gli Alberti nella Firenze del medioevo. Giudici, mercanti banchieri e mecenati (pagg. 238, euro 19). Diacciati, tra i componenti della deputazione di storia patria per la Toscana, ricostruisce grazie anche al ritrovamento fortuito - ma caratterizzato da intuito della ricercatrice nell'identificare il valore di una manciata di fogli in fitto corsivo mercatesco - di un diario vergato da Benedetto di Nerozzo Alberti (1320 - 1388). Sanno usare i palazzi, sanno usare l'immagine pubblica come nell'affresco nella cappella maggiore in Santa Croce dove Benedetto e Niccolò degli Alberti appaiono quasi ieratici mentre assistono, eleganti e impassibili, alla decapitazione di Kosroe. Il lavoro pittorico di Angelo Gaddi è anche messaggio politico, una famiglia integerrima davanti al male punito. Una famiglia la cui ricchezza produrrà anche uno dei più raffinati umanisti: Leon Battista Alberti (1404 - 1472). Per altro intimo amico e architetto di un altro grande mercante mecenate, Giovanni Paolo Ruccellai. Poi certo il caso più noto: i Medici la cui fortuna iniziò con Giovanni di Bicci (1360 -1429) che diede il via all'attività bancaria di famiglia. Dopo, il denaro si trasformò in un preciso modo di raccontare il mondo al mondo, di rendere Firenze una piccola Atene, con un preciso progetto culturale. Tra il 1451 ed il 1457, edificarono la loro villa di Fiesole proprio secondo i principi esposti da Leon Battista Alberti nel suo De re aedificatoria (1452). Gli umanisti Pico della Mirandola, Marsilio Ficino e Poliziano, principali animatori dell'Accademia Platonica, si riunivano proprio alla villa di Fiesole. Ma sarebbe difficile elencare in modo completo il numero di artisti e letterati che nei secoli è dipeso dai Medici.

Il loro successo fu la molla imitativa che portò alla creazione di un vero e proprio stile che è quello che porta verso il mecenatismo moderno. Per citare solo alcuni epigoni di classe e cassaforte dello stile Medici: le famiglie Giustiniani e Torlonia, Enrico Mylius (1769 -1854) e, nella Mitteleuropa, Moritz von Fries (1777 -1826), Johann Heinrich Wilheim Wagener (1782 - 1861), Nathaniel Mayer Rotschild (1840 -1915)...

Un filo rosso ben raccontato qualche anno fa dalla mostra, del 2022, Dai Medici ai Rothschild. Mecenati, collezionisti, filantropi alle Gallerie d'Italia a Milano, museo di Intesa Sanpaolo. La mostra, a cura di Fernando Mazzocca e Sebastian Schütze con il coordinamento generale di Gianfranco Brunelli, mostrava come "dal Rinascimento all'età moderna la relazione tra banchieri e artisti abbia trasformato la ricchezza finanziaria in un patrimonio artistico di inestimabile valore". Il catalogo è ancora reperibile ed è un buon sunto di questo percorso.

Il percorso ora ha preso altre strade ma resta un fatto: committenza artistica, collezionismo e filantropia non sono altro che "la sapiente trasformazione di capitale economico in capitale sociale, culturale e simbolico".

Può non piacere ai puristi dell'arte, ma è quello che ha sempre fatto funzionare l'arte e la cultura, sennò esistono solo i pallottolieri e l'arte di Stato. Insomma il realismo sovietico o l'arte non degenerata della dittatura nazista. Non certo un miglioramento. In quel caso sì che pecunia olet.

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