Bankitalia: «La ripresa frenata dai ritardi sulle infrastrutture»

Il Rapporto sull’economia: «Incertezza paralizzante sui fondi per le strade»

Andrea Fontana

La locomotiva d’Italia ha un grande problema: non ha i «binari» (o meglio, le strade) per muoversi. Ormai lo dicono tutti. Questa volta l’allarme infrastrutture parte da Bankitalia. A 48 ore dal coro preoccupato dei vertici confindustriali, da Diana Bracco a Luca Cordero di Montezemolo, affiancati dal sindaco Letizia Moratti, è la banca centrale a mettere nero su bianco il deficit di opere pubbliche in terra lombarda: neppure 13 chilometri di strade ogni 10mila abitanti contro i 30 della media nazionale, un gap che in rapporto alla superficie territoriale è del 13,9% rispetto allo standard italiano. Al contrario, il numero di veicoli e il tasso di motorizzazione supera le medie sia italiane che europee.
Una situazione paradossale per la regione che è il «motore del Paese» e che sotto altri aspetti economici viaggia ben al di sopra dei valori nazionali. «Le infrastrutture stradali sono in ritardo per l’incertezza paralizzante legata alla disponibilità di finanziamenti - si legge nelle Note sull’andamento dell'economia della Lombardia nel 2005, presentate dal direttore della sede milanese di Bankitalia Salvatore Messina -, ma anche per le difficoltà di coordinamento tra i soggetti coinvolti nei progetti». Insomma, una tirata d’orecchie agli scontri tra le istituzioni (in particolare Provincia e comuni dell’hinterland) che hanno fatto procedere a singhiozzo i più importanti lavori stradali in programma, ma anche una spinta ai progetti in attesa di finanziamento. La Brebemi, ricorda Bankitalia, ha trovato la copertura finanziaria per il 50% dei costi, per la Pedemontana sono state chieste risorse pubbliche per 2,6 miliardi su 4,3, mentre il contributo atteso per la Tangenziale est esterna è di 360 milioni su 1,7 miliardi.
È da questi progetti che la Lombardia attende la svolta per rilanciarsi ora che la ripresa economica sembra arrivata e le imprese intendono cavalcarla investendo in innovazione e ricerca. «Non bastano le aziende, è tutto il territorio che compete - sintetizza il vicepresidente di Confindustria Alberto Bombassei -. Questa totale mancanza di infrastrutture è inconcepibile». «Per continuare a svolgere il ruolo di locomotiva del Paese la Lombardia deve essere messa nelle condizioni di competere con i migliori - gli fa eco il governatore Roberto Formigoni -. Il governo Prodi riconosca l'essenziale funzione della regione per lo sviluppo del Paese e compia scelte e atti concreti conseguenti».
Se sul fronte opere pubbliche le imprese lombarde dovranno ancora pazientare, i motivi per un equilibrato ottimismo sull'andamento economico ci sono. Dopo aver toccato i valori minimi nella scorsa estate, gli ordini sono ripartiti trascinandosi dietro anche un aumento della produzione che, nei primi tre mesi del 2006, è cresciuta del 3,6% rispetto allo stesso periodo del 2005. Un’inversione di tendenza che dà fiducia: un’indagine a campione realizzata da Bankitalia a febbraio ha registrato le attese delle aziende lombarde ricavandone la previsione di un aumento medio del fatturato vicino al 5% nel 2006.
Il 2005 invece per l’economia regionale è stato segnato da ombre e luci. I segnali confortanti sono arrivati soprattutto dall’innovazione. La Lombardia ha investito in ricerca oltre 3,2 miliardi di euro, meglio della media nazionale ma rimanendo ancora molto lontana dai valori europei e, soprattutto da quelli delle 25 regioni più innovative del Vecchio continente. Discorso leggermente migliore per il numero dei brevetti presentati, per i quali la Lombardia occupa, il sesto posto a livello europeo. Le ombre invece riguardano l’export, l’occupazione e la dimensione delle imprese. Le esportazioni a prezzi costanti sono rimaste invariate nel 2005 e negli ultimi dieci anni la regione ha visto assottigliarsi la propria quota di mercato mondiale mentre cresce il numero di occupati, ma grazie alla regolarizzazione di immigrati e ai contratti a tempo parziale.

Negativa la diminuzione dei grandi gruppi industriali e il proliferare di piccole e medie imprese che hanno più difficoltà a innovarsi e competere. «Di anno in anno non c'è ascesa - spiega Salvatore Rossi di Banca d’Italia -. Le piccole imprese non diventano medie e le medie non diventano grandi».

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