Banksy, l’artista "guerrigliero" adottato da Angelina Jolie

A Milano la prima esposizione italiana del graffitaro rivoluzionario. Per ora è riuscito a scardinare il portafogli delle star

Banksy, l’artista "guerrigliero" adottato da Angelina Jolie

Milano - Il Mr. Nessuno dell’arte contemporanea è sbarcato ieri in Italia o forse non è sbarcato affatto, difficile dirlo, nemmeno i suoi galleristi sanno che faccia ha. Sta di fatto che all’inaugurazione di (con)TemporaryArt - evento artistico milanese composto da una serie di mostre collettive e personali, organizzato in contrapposizione con l’imminente Miart, almeno nelle intenzioni di Italian Factory, Giovanni Bonelli e di altri frondisti - una delle mostre più affollate era proprio la sua: quella di Banksy. Che magari, chi lo sa, era mimetizzato tra il pubblico.

«Chi è Banksy?», abbiamo chiesto a Acoris Andipa, il suo gallerista londinese. «Maybe he’s you», forse sei tu, è stata la sorniona risposta. C’è del vero: Banksy è tutti e nessuno, e l’anonimato postmoderno che è riuscito a cucirsi addosso è oramai inossidabile. C’è chi lo vede ovunque, chi non lo vede mai. Gli unici dati quasi certi sono che Banksy è il capo della Guerrilla Art, evoluzione provocatoria ed engagé della Street Art, e che la sua carriera è incominciata come graffitaro per le strade di Bristol, città dov’è nato nel 1975 (o 1974, è incerto anche questo). Fu verso la fine degli anni Novanta che le sue opere caustiche e a tratti persino umoristiche, spesso realizzate con la tecnica dello stencil (una maschera normografica), hanno cominciato a essere notate e commercializzate dallo stesso «sistema-arte» che volevano contestare. Il «topo» che Banksy amava disegnare agli angoli delle strade conquistò vertiginosamente i teneri cuori dell’Occidente. Brad Pitt e Angelina Jolie, suoi fan e collezionisti, hanno detto di lui meraviglie negli ultimi quattro anni. Un po’ più arrabbiata è rimasta Paris Hilton davanti al feroce rifiuto di Banksy di farle un ritratto comme il fau da vera ereditiera, rifiuto concretizzatosi poi nella realizzazione da parte dell’artista di una parodia dell’album Paris, in cui raffigurò la Hilton con la testa del suo chihuahua. Altre scorribande di Banksy: appendere le proprie «opere» con una puntina da disegno in mezzo ai capolavori nei grandi musei di tutto il mondo (puro situazionismo, il punto è che la sorveglianza se ne accorgeva solo dopo una settimana, «Evidentemente - ha commentato Banksy - i musei fanno più attenzione a ciò che esce che a ciò che entra»); dipingere tromp l’oeil sul muro tra Israele e i territori palestinesi della Cisgiordania, illudendo entrambe le parti che di là dal cemento c’era un mondo paradisiaco; raffigurare la regina Elisabetta nell’inqualificabile pratica erotica del face-sitting (il motivo «storico-critico» dell’opera è che la regnante, all’epoca, si era rifiutata di regolarizzare le coppie lesbiche).

Per Banksy non è possibile parlare di «bellezza» (anche se, Vittorio Sgarbi docet, graffiti et similia sono la Cappella Sistina del nostro tempo) e c’è chi lo ritiene poco migliore dei graffitari dell’hinterland milanese: però, ci ha detto Andipa, le sue opere in mostra vanno da tremila a 75mila sterline, e tra di esse l’Horse on Steel, un cavallo-asino che prega spruzzato in nero su una lastra di acciaio, «è da Canone Occidentale». Per non parlare di Toxic Mary, in cui la Vergine Maria nutre un bambino con un biberon di veleno (messaggio: la religione è tossica), o di Napalm, dove la bambina vietnamita bruciata dalla guerra chimica, la cui drammatica foto è entrata nei libri di storia, è tenuta per mano da Mickey Mouse e un clown.

Dietro tutto questo, c’è probabilmente una morale, ma ancora di più un «far la morale» che è la peculiare e molto remunerativa cifra dell’arte del nostro tempo: piccoli shock nervosi destinati a regalare allo spettatore effimere e sterili prese di consapevolezza.

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