Barack e la strategia dell’umiltà

Non capita mai che alla fine di una conferenza stampa, i giornalisti si alzino in piedi per applaudire un leader politico. Con Obama è successo giovedì sera a Londra al termine del G20 e a tributargli l'ovazione sono stati i cronisti stranieri, non quelli americani. Non capita mai che un presidente, all'estero, venga accolto da folle in delirio. O meglio: succedeva a Gorbaciov ai tempi della perestroika. Ieri in Germania Obama ha parlato a un'assemblea di cittadini adoranti e i sondaggi rivelano che, se si candidasse alle elezioni politiche di fine settembre, batterebbe agevolmente Angela Merkel. Come Gorbaciov ha sposato una donna dal carattere forte, carismatico e capace di rompere gli schemi. Raissa è stata la prima vera first lady della storia russa, Michelle colei che ha osato toccare in pubblico la Regina Elisabetta.
Quando, domani, il presidente americano lascerà Istanbul per rientrare a Washington, non c'è dubbio che il suo bilancio personale sarà straordinariamente positivo. Ben venga la svolta: la sua straripante popolarità dimostra che gli Usa, quando usano i toni giusti, possono essere ancora amati nel mondo.
L'analogia con Gorbaciov, però, rischia di essere anche politica, sebbene non altrettanto drammatica nell'esito finale. L'esperienza del profeta della glasnost si concluse con il crollo dell'Urss, quella del primo presidente afroamericano difficilmente terminerà con l'implosione degli Stati Uniti. Ma proprio questo primo viaggio ha svelato al mondo un'altra America, meno sicura di sé, improvvisamente umile, a tratti quasi implorante. Quella di un tempo era abituata a imporre i compromessi, quella di oggi dà l'impressione di subirli. Il G20 è stato salutato come un grande successo, ma Washington non ha ottenuto l'impegno di tutti i Paesi a varare una maxi-manovra di stimolo. E al vertice della Nato è molto improbabile che strappi un impegno ampio e coordinato da parte degli alleati per l'invio di nuove truppe in Afghanistan. Eppure queste erano considerate priorità irrinunciabili dall'Amministrazione, che nelle scorse settimane ha esercitato pressioni fortissime per piegare le resistenze degli europei. Inutilmente: per la prima volta il Vecchio Continente può dire no, senza temere lacerazioni e tanto meno ritorsioni. La Ue è diventata improvvisamente forte? No, è quella di sempre caotica, litigiosa, multicefala. Semmai è l'America a essere divenuta debole. Obama ha avuto l'onestà intellettuale di ammetterlo: «Siamo stati noi a provocare la crisi finanziaria», da cui, però, gli Stati Uniti non possono uscire da soli.
Gli Usa hanno bisogno degli altri; del sostegno della Banca centrale europea per stabilizzare il sistema finanziario; dei risparmi dei cinesi e dei fondi degli sceicchi arabi per acquistare i Buoni del Tesoro; della crescita globale per riconvertire un'economia pericolosamente indebitata e incentrata sui consumi.
E allora Obama è costretto ad assumere un registro inconsueto per un capo della Casa Bianca: quello del mediatore, dell'amico bonario, del leader che parla poco e ascolta molto. È stato lui a risolvere in extremis la lite tra Sarkozy e il presidente Hu Jintao sui paradisi fiscali, che ha rischiato di far fallire il vertice londinese. Con pazienza e dedizione ha fatto la spola tra i due leader, trovando il compromesso che scongiura l'iscrizione di Macao e Hong Kong nella lista nera.

È stato lui ad ammettere che il suo Paese ha sbagliato nel gestire alcune crisi del mondo. La sua è un'America che tende la mano e riscopre il consenso. È sempre una potenza, ma forse non più super.
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