Barakat, libanese esiliata a Parigi «Scrivo per medicare le mie ferite»

L’autrice rivelazione sarà al Dal Verme lunedì con la Oates per «Donne e follia»

Stefania Vitulli

Una delle più importanti voci letterarie in lingua araba, autrice di L’uomo che arava le acque, premio Mahfuz 2003, e Lettere da una straniera, struggente raccolta di reportage spirituali scritti tra il 2001 e il 2002 per il giornale arabo Al Hayat (entrambi pubblicati in Italia da Ponte alle Grazie), la scrittrice libanese Hoda Barakat sarà ospite della Milanesiana il 10 luglio, insieme a Joyce Carol Oates e Carmen Lasorella, per una serata dedicata al tema Donne e follia. Tema su cui anche noi l’abbiamo interrogata, soprattutto in relazione al suo stato di esule dal Libano, lontana ormai da quasi vent’anni dalla terra amata e detestata.
È la prima volta che viene a Milano?
«Ci ero già stata, ma soltanto per un giorno. E anche stavolta mi fermerò troppo poco. Per farmi perdonare, ho scritto un testo che mi riguarda profondamente e che presenterò alla città nella serata della Milanesiana. Non credo verrà mai pubblicato. Si intitola Uscire dalla tribù».
Di che cosa tratta?
«È una testimonianza sulla mia vita di scrittrice. Un essere umano, uomo o donna non importa, che appartiene a una società in crisi, narra di sé, di come andare verso gli altri, di come scegliere tra felicità e infelicità».
Esiste davvero un rapporto tra donne, esilio e follia?
«Che cos’è la follia se non esclusione? La follia è un esilio: dal gruppo, dalle sue convinzioni, dai suoi meccanismi, dal suo significato. Quando la follia non è un disturbo clinico, i matti sono tutti coloro che risultano estranei alla nostra definizione del mondo. Per neutralizzare l’Altro esistono due modi: cancellarlo con la guerra o etichettarlo come “folle”, per annullarlo dalla civiltà».
Che cos’è un confine, una frontiera?
«Tutto ciò che spinge, che si muove. Un confine è sempre in movimento, anche dentro di noi, perché definisce il nostro spazio in rapporto all’Altro. Il confine è la storia della mia vita e dei miei libri. Nuovi confini vengono tracciati ogni giorno: tra Parigi e la banlieue dopo i fatti dello scorso autunno, ad esempio. O tra l’Africa e il mare, che uccide gli emigranti».
La scrittura l’ha aiutata a sopportare il dolore per la separazione dalle sue radici?
«Non uso la scrittura per “sopportare”, semmai per scavare, per riaprire la ferita, sentirla meglio. Soltanto così posso disinfettarla per sempre. Non sono certa che scrivere serva davvero a qualcosa, tuttavia, per quanto riguarda il legame con le radici, continuo a scrivere del Libano perché non riesco a sentirmi un’esule. Nessuno mi ha cacciata, nessuno mi impedisce di tornare a casa. A volte mi chiedo se sono davvero partita, visto che non sento di essere arrivata da nessuna parte. Senza contare che non amo la scrittura nostalgica e leziosa tipica degli emigranti, come se la parola dell’esule fosse sempre onesta e portatrice di verità».


Che cosa significa oggi appartenere al mondo arabo?
«Pensare di poter “appartenere” a un mondo come quello arabo, così vasto, così differenziato, in cui vi sono identità multiple, è già sbagliato. Io non mi sento araba per appartenenza geografica o religiosa, ma per nascita, lingua e per scrittura. Araba soprattutto per letteratura: testi magnifici, a cui ritorno continuamente senza stancarmi mai».

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