"Baricco? La fiera del kitsch" "Citati? Puro esercizio di stile" Così stroncava Raboni

Poeta «laureato», fu critico implacabile. Bacchettò (presunti) maestri, mode editoriali e autori bestseller

"Baricco? La fiera del kitsch" "Citati? Puro esercizio di stile" Così stroncava Raboni

A Milan Kundera si devono almeno due libri memorabili, come Amori ridicoli e Lo scherzo, ma li ha scritti a Praga, dove «reagiva al pesante squallore del regime con quel beffardo disimpegno, con quella leggerezza dell'intelligenza di cui, una volta emigrato in Francia, ha fatto la formula del suo successo»; e poi, nel suo bestseller L'insostenibile leggerezza dell'essere, «la leggerezza è finita tutta nel titolo, mentre nel corpo del testo è stata sostituita da una spocchia aforistica che solo in parte riesce a nascondere un sottofondo di banalità da Baci Perugina». Storia prima felice, poi dolentissima e funesta di Pietro Citati? «Un puro esercizio di stile, o meglio - date le ben note caratteristiche della scrittura di Citati - puro esercizio di calligrafia». E La vita istruzioni per l'uso di Georges Perec? «Diciamo la verità: cinquecento pagine per significare che la vita è un puzzle in cui non si riesce mai a sistemare l'ultimo pezzo sono decisamente troppe, e la bizzarria del percorso non cancella la banalità del sapere cui si arriva». Per tacere delle frasette di Khalil Gibran: «Bolle d'aria senza senso».

Le parole sono pugnali, poi si può decidere se cospargere la lama di miele o di fiele. L'importante, quando si affonda il colpo, è stroncare.

La stroncatura è un'arte e lo stroncatore un virtuoso, paradossalmente affetto da un vizio. Quello della lettura. Esempio: Giovanni Raboni (1932-2004). Poeta di qualità più che di quantità, scrittore d'élite, traduttore principe (tutta la Recherche) e giornalista incontenibile: tanto leggeva, tanto recensiva. Fortiter in re, e a suo modo suaviter.

Raboni cominciò a scrivere per i giornali a trent'anni e lo fece fino all'ultimo mese di vita. Totale: quattromila pezzi, per riviste e quotidiani, da Nuovi Argomenti al Corriere della Sera, di cui una selezione in negativo (solo stroncature) è stata ora raccolta da Luca Daino - 170 «scritti militanti su letteratura, cinema, teatro», dal 1964 al 2004 - sotto il titolo Meglio star zitti? (Mondadori).

Meglio star zitti?! Quando mai. Si può forse stare zitti di fronte all'elogio generalizzato delle Lezioni americane di Italo Calvino («un modesto saggio divulgativo»)? O alla saga-bestseller delle Formiche di Gino&Michele («Anche i più vetusti repertori di barzellette sui carabinieri rifulgono d'intelligenza e di spirito in confronto a questo coacervo di sentenze mutilate e di freddure focomeliche»)? O alle opere di narrativa dei giornalisti («Nel conferire a Bocca, Biagi, Pansa lo status di romanzieri c'è un unico rischio, quello che loro stessi finiscano col crederci»)? Certo che no. Meglio parlare, meglio scrivere. «Una stroncatura, pur che abbia un minimo di fondamento - dice Raboni rispondendo a un'intervista buonista di Walter Veltroni, anno 1998 - serve alla buona salute della letteratura cento volte di più, non solo del silenzio, ma anche di un elogio infondato». Ogni frase, una sentenza.

Eccole qui, le sentenze di Giovanni Raboni, poeta olimpico e critico furente, il «re censore», la poesia come fonte di verità e la stroncatura come barlume di giustizia. Articoli spietati, intelligenti, sarcastici, mai cattivi, sempre motivati. Contro l'industria editoriale (leggete cosa scrive sulla fabbrica dei bestseller), lo stato di salute della critica (stava già morendo allora...), le mode culturali (nel '98 fa a pezzi le letture pubbliche di poesia, dove «il poeta fa spettacolo ma non si fa leggere», e chissà cosa direbbe oggi dei mille festival letterari che riempiono le piazze cittadine di un Paese che però ha le librerie vuote)...

Ora, una annotazione. Da quando il libro Meglio star zitti? è uscito (pochi giorni fa), più di un giornale ne ha dato conto. Ma curiosamente soffermandosi soltanto sugli scrittori eccellenti di ieri: Montale (molto meglio Luzi), Moravia (scrittore così così), Buzzati («abile divulgatore» e poco altro: un «Kafka dei poveri» a confronto di Landolfi), Calvino (sopravvalutato) e poi Pasolini, persino Hemingway. Nessuno, però, si è soffermato sugli scrittori di oggi. Timore reverenziale? Rispetto per il collega di testata? Paura di offendere qualche vivente, o la fresca memoria? Scrupoli a cui Raboni era estraneo. Esempi.

Sotto le battute di Raboni (di solito circa 3.600, spazi inclusi) cadono Andrea Camilleri (che nella categoria «giallista seriale» avrebbe dovuto prendere esempio da Georges Simenon, il quale a differenza del siciliano tenne sempre alta la qualità media dei suoi libri, senza farsi rovinare dal successo), Umberto Eco (Il pendolo di Foucault è «un'autentica patacca», «un libro che può assomigliare a tutto - a un'inchiesta dell'Espresso, a un'enciclopedia tascabile, a un'annata della Settimana enigmistica - a tutto tranne che a un libro di uno scrittore: sotto il profilo letterario Eco va assolto per non aver commesso il fatto»), Dario Fo (da leggere il pezzo che scrisse per il Corriere della Sera il 10 ottobre '97, il giorno dopo l'assegnazione del Nobel all'autore italiano, grandissimo attore «ma i cui testi non sono che tracce, pretesti, canovacci, del tutto privi, non dico di valore letterario, ma persino di un'effettiva, autonoma leggibilità...»), Susanna Tamaro (i suoi libri «hanno la consistenza estetica di un Harmony Book»), Baricco («Ogni momento cruciale della nostra storia ha il kitsch che si merita - scrive nel 1997 - quello dalla Prima alla Seconda Repubblica ha le imitazioni in stile, accurate e a buon prezzo come i trumeaux e le consoles dei leggendari mobilifici brianzoli, di Alessandro Baricco»). E tanto basta.

Per il resto, sistemati i giganti delle classifiche, non rimane che segnalare alcune formidabili intemerate contro i nanetti dei salotti culturali. Nel '97 Raboni liquida definitivamente la domanda: «Nelle canzoni dei nostri cantautori c'è poesia?». Risposta: sì nell'uno per cento dei casi, nel 99 per cento «i testi sono di una pochezza terrificante». Nel '94 propone (è un paradosso) una «tassa sui libri stupidi», tipo «quel capolavoro di presunzione e fasullaggine che è La compagnia dei Celestini di Stefano Benni».

E nel '93 scrive una cronaca irresistibile di una puntata televisiva di Babele in cui Corrado Augias («Scherzava? Non scherzava? confesso che lì per lì non sono riuscito a capirlo, anche se a ripensarci propendo per il no») presenta Aldo Busi come «il più grande scrittore vivente». Confermandosi - si intende: Raboni - il più grande recensore, purtroppo, defunto.

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