"Basta coi veti delle minoranze nelle fabbriche"

Il senatore del Pd Pietro Ichino denuncia "relazioni industriali ormai obsolete e inconcludenti". E sulle trattative apre: "Occorre una regola che dia potere alla maggioranza"

"Basta coi veti delle minoranze nelle fabbriche"

«Sergio Marchionne - dice subito Pietro Ichino, ordinario di diritto del lavoro alla Statale di Milano e senatore del Pd, uno dei massimi esperti del diritto del lavoro e delle relazioni industriali - ha ragione quando chiede che il contratto aziendale sia una cosa seria. Per questo occorre una regola che sancisca il potere della coalizione sindacale maggioritaria di stipulare un accordo che abbia efficacia davvero vincolante per l’impresa e per tutti i dipendenti; compresa la clausola di tregua (ovvero l’impegno a non scioperare in relazione agli accordi, ndr)».

È la sintesi, contestuale a quanto sta accadendo in questi giorni dopo l’accordo raggiunto su Mirafiori da Fiat e sindacati, Fiom esclusa, di un suo disegno di legge.
«Sì: il disegno di legge numero 1.872, che ho presentato l’anno scorso, con altri 54 senatori. Ma il progetto risale al mio libro del 2005 “A che cosa serve il sindacato”, edito da Mondadori».

La Fiom, intanto, è rimasta fuori e si prepara ad affrontare il 2011 in una posizione di isolamento, con tutti i rischi che questo può comportare.
«La Fiom deve rimanere dentro il “sistema costituzionale” delle relazioni industriali, anche se non ha firmato l’accordo. Conviene anche alla Fiat che essa abbia i propri rappresentanti sindacali in azienda».

E come potrebbe avvenire?
«Occorre una regola che, come è previsto nello stesso disegno di legge numero 1.872, attribuisca anche al sindacato minoritario il diritto alla rappresentanza, in proporzione ai consensi ricevuti in un’elezione triennale; ma non il potere di veto di cui il sindacato minoritario dispone nel nostro sistema attuale di relazioni industriali, obsoleto e inconcludente. Così si evita che la Fiom diventi un maxi-Cobas».

Si parla, in proposito, di violazione dei diritti fondamentali dei lavoratori...
«La Fiom ha torto, e con essa hanno torto Sergio Cofferati e Luciano Gallino (Repubblica del 24 dicembre, ndr), quando confondono le regole contenute nel Contratto collettivo nazionale con i “diritti fondamentali dei lavoratori”. La Cgil fece già questo errore nei primi anni '50 e subì una durissima sconfitta, proprio nelle elezioni della Commissione interna della Fiat, nel 1955; sembra che oggi se ne sia del tutto dimenticata. Fiom, Cofferati e Gallino hanno torto, sul piano tecnico-giuridico, anche quando denunciano l’illegalità, addirittura l’incostituzionalità, dell’accordo di Mirafiori nella parte in cui esso nega alla Fiom stessa il diritto di costituire una sua rappresentanza sindacale riconosciuta in seno all’azienda; mostrano di non sapere due cose».

Entriamo nel dettaglio, allora.
«L’accordo applica alla lettera quanto è previsto dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dal referendum del 1995 (ha diritto a costituire la Rsa solo il sindacato che ha firmato almeno un contratto collettivo applicato nell’azienda). E la Corte costituzionale ha più volte dichiarato la piena compatibilità di questa norma, anche così modificata, con il principio di libertà sindacale sancito dall’articolo 39 della Carta».

Relazioni industriali più «americane», con meno pluralismo sindacale in azienda?
«È così: l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, come è stato modificato dal referendum del 1995, è più vicino alla cultura delle relazioni industriali statunitense che a quella italiana, fortemente legata al principio del pluralismo sindacale. Se fino a ieri l’opinione pubblica non se n'era accorta è solo perché, di fatto, si è continuato ad applicare la norma sulle rappresentanze unitarie contenuta nel protocollo Ciampi del 1993; e nessuna grande multinazionale è venuta a chiedere una stretta applicazione della norma del 1995, con la medesima ruvida fermezza con cui lo ha fatto Marchionne».

A questo punto, come se ne esce?
«Resto convinto, comunque, che sia possibile e utile per tutti, a cominciare da Confindustria e dalla Fiat, riscrivere questa norma in modo da conciliare la nostra tradizione di pluralismo sindacale con l’esigenza di togliere il potere di veto alle minoranze e di aprire il sistema agli investimenti stranieri e ai piani industriali innovativi».

La Cgil ha comunque sempre opposto un muro.
«A chi aveva avvertito la necessità di una profonda riforma del diritto sindacale italiano la Cgil finora ha sempre risposto seccamente difendendo lo status quo: “Non si deve toccare nulla, per non mettersi su di un piano inclinato, dove si sa dove si incomincia, ma non si sa dove si va a finire”».

E così si è arrivati allo strappo.
«Anche il contratto collettivo nazionale non lo si doveva toccare: infatti quello dei metalmeccanici è rimasto sostanzialmente uguale a se stesso dal 1972. Ora tutti vedono come è andata a finire».

Adesso che cosa accadrà nella parte restante del nostro tessuto produttivo?
«Il contratto collettivo nazionale conserverà un suo ruolo insostituibile, ma solo come “rete di sicurezza”, cioè come disciplina

applicabile dove manchi un contratto aziendale, stipulato da una coalizione sindacale maggioritaria. Questo è quello che propongo nel mio disegno di legge; ma mi sembra che le cose si stiano muovendo da sole in questa direzione».

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