Basta demonizzarla: la tecnologia che ci rende più umani

Modesta proposta di un intellettuale "eretico": se vogliamo un nuovo umanesimo cominciamo a pensare con le macchine

di Stefano Moriggi

Sostenere che la tecnologia ci renda umani può anche sembrare provocatorio, per alcuni persino irritante - e non solo nella ristretta cerchia dei filosofi e degli umanisti di professione. Dopotutto, è esperienza quotidiana osservare come l’altra faccia di una società globalizzata dai progressi tecno-scientifici tradisca il panico ansiogeno di un’epoca che, piegata alle logiche del profitto e del consumo, rincorre, più o meno disincantata, oasi di presunta umanità non ancora raggiunte e violate dal deserto che avanza.
C’è chi, in fuga dalle tentacolari metropoli, ritrova il nomos della Terra coltivando gerani e rapanelli nell’orto di villette a schiera ordinatamente disposte in placide e verdi campagne; c’è chi si convince che vivere senza la «cattiva maestra» televisione consenta alla tanto minacciata famiglia di custodire modi e maniere di una sana educazione e alla coppia di salvaguardare e custodire il rapporto nella profondità di un dialogo non contaminato da pericolose perturbazioni mediatiche.
Nulla da obiettare, ovviamente, sulle scelte di vita di ciascuno. Ma come ha osservato di recente Gilles Lipovetsky, il dilagare di questo variopinto «immaginario sociale del prodotto genuino», dai bisogni più frivoli (viaggi nelle terre selvagge, revival del vintage...) fino alle convinzioni più articolate (parlar chiaro in politica, bisogno di radici culturali o spirituali, difesa del «naturale»...) è comprensibile nei termini di una nostalgia per un passato idealizzato indotta dalla stessa evoluzione tecnico-scientifica della società.
Alla sofisticazione tecnologica si cerca di contrapporre l’autenticità della natura, alla inconsistente contingenza di contatti e rapporti sempre più «liquidi» si cerca di rimediare rispolverando tradizioni, valori e principi che si pretende affermare come indiscutibili, non negoziabili - senza realizzare, e questo è il punto, che l’oasi è un miraggio, ovvero che l’ansia dell’autentico è solo il retro della medaglia dell’ipermoderno.
E se ben fanno sociologi come Lipovetsky a smascherare compensazioni culturali e surrogati psicologici con cui si cerca di attutire i grandi cambiamenti storici e sociali; d’altra parte, continua a sorprendere la fatica con cui non pochi raffinati intellettuali e filosofi si ostinino a individuare nella tecnica la matrice prima della progressiva consunzione di valori umani e divini.
Forse, un approccio più consapevole e meno «epocale» al mondo della tecnica (della scienza e della tecnologia) contribuirebbe a evidenziare ulteriormente come e quanto - dall’epoca dei primi e rudimentali strumenti approntati dai nostri antenati, fino ai più sofisticati dispositivi tecnologici del giorno d’oggi - non si pensi indipendentemente dalle macchine con cui ci è dato interagire col mondo esterno e con i nostri simili.
Strumenti e macchine hanno da sempre articolato e riplasmato azioni e pratiche, permesso e scandito nuove consuetudini, e quindi anche riscritto significati e valori. Ha ragione chi ha scritto che siamo la continua reinvenzione delle nostre stesse invenzioni. In altre parole, siamo animali culturali; e la cultura - piaccia o non piaccia ai delicati palati di certi umanisti - è un rapido e potente strumento di adattamento all’ambiente.
Altro che provocazione, quindi! La tecnologia ci ha reso (e ci rende) umani nei modi in cui ha consentito e (consente) relazioni e interazioni sempre più complesse e pregnanti che raccontano il passato e progettano il futuro di quell’intreccio di strumenti e significati che molto racconta della nostra natura e della nostra storia.


Nell’agosto del 1971, congedando la prefazione alla seconda edizione del suo I filosofi e le macchine 1400-1700 - Paolo Rossi lamentava la «tenace persistenza di una mentalità idealistica» al più capace «di entusiastiche professioni di fede sull’esistenza di stretti collegamenti fra sviluppo delle scienze e vita sociale». Lascio a chi sa il compito di valutare eventuali passi avanti nel dibattito filosofico italiano. Mi limito a proporre una modesta proposta: chiunque auspichi un nuovo umanesimo, cominci a pensare (con) le macchine!

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