di Luca Doninelli
Non so cosa o chi avesse in mente mons. Francesco Moraglia, successore del card. Angelo Scola al Patriarcato di Venezia, quando ha detto, l'altro ieri, ai sacerdoti della sua diocesi che «i preti devono tornare a fare i preti».
La lettera del suo discorso, però, è molto chiara. È una questione di priorità: un prete è ministro di Cristo, è al servizio della Santa Chiesa, e questo deve essere il suo primo compito, anche quando questo richieda sacrifici o azioni apparentemente contrarie al temperamento di chi le compie.
Invece, spiega il Patriarca, «il rischio è di essere organizzatori, impresari, docenti, intellettuali, psicologi, assistenti sociali e non pastori».
Il problema sta tutto in quell«e non». Io non credo, infatti, che mons. Moraglia intenda dire, semplicemente, che i preti «non devono» fare i docenti o gli intellettuali o gli imprenditori. Il suo pensiero è più articolato. Va da sé che, per esempio, uomini come Joseph Ratzinger o Angelo Scola, che sono grandissimi intellettuali, non possono essere bersagli del suo richiamo.
La domanda-chiave, qui, è la seguente: che razza di uomo è un prete? Un prete è un tipo d'uomo particolare, non solo perché la sua vita è diversa rispetto a quella degli altri - e in questa diversità dobbiamo comprendere una maggior esposizione al pericolo della solitudine - ma perché un prete non può essere definito, come invece succede a quasi tutti noi, da quello che dice e da quello che pensa.
Un prete può essere imprenditore, oppure che so, fascista, o scrittore, o comunista, metteteci tutto quello che volete, perché un prete è un uomo: ma nessuna di queste cose lo può definire, o meglio: da nessuna di queste cose può sentirsi definito, perché quello che definisce un prete è l'essere al servizio di Gesù Cristo mediante il servizio alla Chiesa.
E, benché la parola che sto per dire induca noi uomini moderni a storcere un po la bocca, questo servizio si attua nell'obbedienza. Il prete è definito da questa azione fondamentale, che chiede però un minimo di comprensione.
È difficile, infatti, con le categorie della cultura di oggi capire bene cosa sia l'obbedienza. Questa virtù viene intesa (spesso anche dai preti) come un limite, un laccio, una limitazione della libertà.
Ora, il Cristianesimo apre davanti agli occhi dell'uomo una prospettiva diversa: l'obbedienza è fonte di libertà, non di schiavitù, perché insegna all'uomo che la sua dignità non si riduce al suo povero pensiero e alle sue mediocri azioni, perché la sua radice sta in qualcosa di infinitamente più grande: il rapporto (oggettivo) con Gesù Cristo.
Dopo di che, è evidente che i casi della vita sono tanti, e che lo sforzo di svolgere pienamente il proprio compito (quindi non sottovalutando nessuna delle doti che Dio gli ha dato, ivi incluso il valore intellettuale o la capacità imprenditoriale) può condurre un uomo così, un uomo che si pensa così, lungo le strade più diverse e inimmaginabili.
Cè, però, un segno distintivo. Quando mi trovavo al Cairo, un prete italiano di stanza ad Alessandria veniva una volta la settimana a tenere delle lezioni di filosofia in una scuola. Parlavo spesso con lui, e giuro che dalle sue parole non emergeva nessun'ombra di cristianesimo: tanto che un'anziana signora, una santa che ebbi l'onore di conoscere, lo chiamava «il professore di Alessandria», rifiutandogli il «don».
Viceversa, tutti sappiamo che razza di imprenditori sono stati don Gnocchi o don Calabria, eppure quando pensiamo a loro il «don» risuona subito in noi, come una campana festosa.
Tra don Gnocchi e il «professore di Alessandria» sta tutto il problema. In altre parole, se ho ben capito le parole di mons. Moraglia: tornare a fare i preti non è una questione di ruolo, ma di libertà personale, esercitata fino in fondo. Per il bene non solo dei preti, ma di tutti.
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