«Mi porto dentro lItalia del passato, quella che ancora sognava, un Paese che lottava per la giustizia». Adesso ha la saudade per la «patria» Cesare Battisti, intervistato dallAnsa a tre mesi dalla riconquistata libertà che gli ha consegnato lAlta Corte brasiliana. Regalandogli unaltra vita. È un salotto dove, oltre a un grande divano e qualche libro, campeggiano immagini di Che Guevara, Marx e Lenin, accanto ad un vecchio poster con la scritta «Forza Palestina» e un manifesto de «Il quarto stato», simbolo della sinistra degli anni 70, quello della casa dove vive da tre mesi in Brasile da uomo libero.
«In questi anni, con una vita trasparente e a fatti, ho dimostrato di voler voltare la pagina» rispetto agli anni 70, spiega senza arrossire Battisti, che si dice pronto, bontà sua, ad una «riconciliazione». Nella casa messa a disposizione da un amico brasiliano a Cananeia, sul litorale di San Paolo, lex militante dei Proletari Armati per il comunismo parla del passato, ma anche del futuro dopo i quattro anni trascorsi nel carcere di Papuda, a Brasilia: «Oggi ho ricevuto il contratto dalla casa editrice di San Paolo per la quale pubblicherò il mio ultimo libro Ai piedi del muro», annuncia sorridente e soddisfatto, ricordando, come se non facesse già abbastanza rabbia, che, grazie ai documenti ottenuti ad agosto dalle autorità brasiliane, fra qualche giorno aprirà un conto corrente a San Paolo. Battisti appare dimagrito e con la stessa camicia bordeaux che indossava nel marzo del 2007, quando venne portato in carcere a Brasilia.
«In questo momento - confida - il mio avversario è la stampa sensazionalista: sono assediato, mi sento il mostro da sbattere in prima pagina», aggiunge senza accorgersi del ridicolo. E poi quella nostalgia canaglia: «Ho tanti ricordi visto che dallItalia sono uscito non da bambino, ma da adulto. Là cè la mia infanzia, la mia famiglia». Poi il colpo di scena. Chiede perdono. Ma attenti alle parole: «Chiedo perdono come responsabile politico, non come responsabile militare degli attentati. Sento la responsabilità di aver partecipato ai Proletari armati per il comunismo e mi assumo oggi una responsabilità maggiore di quella cioè che avevo allepoca perchè ero un ragazzino. E faccio autocritica: era illusorio pensare cambiare cose con le armi». Ma, ha aggiunto, «la parola pentimento non mi piace, è unipocrisia, sinonimo di delazione, è legata alla religione».
«Almeno abbia il pudore di stare zitto. Battisti accetti di scontare la pena e quindi torni in Italia». Alberto Torregiani, figlio del gioielliere ucciso, è indignato. Battisti «è stato mollato dagli amici e ora cambia versione. Non può voltare pagina ma solo continuare a mentire. Lunico modo che avrebbe per farlo è sottoporsi a un giudizio popolare e mostrare le prove della sua innocenza di cui parla da anni e che non si sono mai viste». Anche perchè Battisti infierisce. Senza pietà: «Quando cè stato lattentato a Torregiani e il figlio è rimasto ferito, ricordo che ho pianto, fin da subito». E poi: «Ho sempre avuto grande compassione per le vittime già allepoca degli attentati», definendo «triste e infame» il fatto di essere stato accusato di quellomicidio. «Una bella fandonia, una presa in giro - sono ancora parole di Torreggiani - Battisti sapeva quello che faceva. Le sue parole sono unoffesa ulteriore. Laltro giorno alla stampa brasiliana aveva dichiarato che non si pentiva di nulla e che se glielo avessero ordinato, avrebbe ucciso. I fatti hanno dimostrato che era nei pressi di Venezia per lattentato di Sabbadin. Quindi stava partecipando agli attentati».
Adriano Sabbadin, figlio di Lino, il macellaio di Santa Maria di Sala, Venezia, ucciso dai Pac il 16 febbraio 1979, non vuole sentire parlare di perdono e riconciliazione. «È sempre il solito ipocrita chissà quando troverà la dignità di tacere per sempre. La smetta di girare il coltello nella piaga e di tormentarci. Dice che non è pentito? Si vergogni».
Anche la politica reagisce indignata.
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