«To be or not to be», al Manzoni il capolavoro di Melchior Lengyel

Da molti anni è in atto sul palcoscenico un accanito repechage della commedia, sofisticata e no, dell'età d'oro di Hollywood. Anche se spesso ci si dimentica che certe incantevoli comiche accelerate, sorprendenti quiproquo e inauditi scambi di persona cui allora ci abituarono i maestri della decima musa massicciamente importati da Vienna o da Berlino negli anni bui dell'ascesa di Hitler erano di partenza dei felicissimi copioni teatrali. Da Jakobowski and the colonel del grande Franz Werfel che fornì il destro, in Io e il colonnello, al fortunato tandem Curd Jurgens-Danny Kaye all'indiavolato dissidio che oppone marito ed amante della conturbante Marlene Dietrich in uno degli intrighi più spiritosi di Lubitsch. Quell'«Angelo», frutto dell'ingegno malizioso e toccante del commediografo principe di Budapest Melchior Lengyel. Al quale si deve tra l'altro un piccolo capolavoro come To be or not to be che ancora una volta l'incomparabile Lubitsch tramutò nel cult per eccellenza Vogliamo vivere. In cui una compagnia di terz'ordine nella Polonia occupata dai nazisti riesce, con eccezionale spirito d'intraprendenza, ad opporsi con successo alla Gestapo fuggendo indisturbata nel West End. Dove, per la gioia del mondo libero, il primattore Josef Tura recita finalmente ad oltranza il famoso monologo dell'Amleto che dà il titolo al film.

Stavolta parafrasato, citato e vezzeggiato nell'adattamento curato dalla Compatangelo (al Manzoni di Milano fino al 3 maggio) per lo Stabile di Trieste. Un lavoro che si fa applaudire ed apprezzare grazie alla verve in punta di penna di una veterana dell'operetta come Daniela Mazzucato e di un suadente e raffinatissimo Giuseppe Pambieri in perenne stato di grazia.

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