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Beirut ha paura del conlitto totale corsa alle scorte di cibo e benzina

nostro inviato a Beirut
La notizia è planata sulle case sulle ali di corvo degli ultimi notiziari della notte, attraversando come una macchia oleosa, lenta e infrenabile, tutti i quartieri della capitale. In Siria stanno scavando trincee, dicevano le notizie. A Tel Aviv schierano i Patriot. E quella parola, khanadik, trincee, ha evocato ricordi di guerra veri, di privazioni dolorose, di un conflitto che 24 anni fa era arrivato fin qui, dilagando sulla corniche. Com’era? Basta guardare certi fantasmi edilizi che ancora punteggiano la città, sbranati dalle cannonate e dalle pallottole, per rinverdire vecchie memorie. Perché la guerra al sud, quella che ora infuria a Tiro e sul confine, era pur sempre la guerra «degli altri», finora. E nella capitale se ne sono avvertiti solo gli echi. Poi quella parola, khanadik, ha resuscitato la mummia.
Ci mancavano solo le parole del ministro delle Telecomunicazioni, Marwan Hamade («La crisi attuale sembra l’inizio di un conflitto irano-americano»). Le troppo insistite rassicurazioni di Amir Peretz, ministro della Difesa israeliano, che per 2 volte in 24 ore nega di voler trascinare Damasco nel conflitto. E la notizia che Serge Brammartz, magistrato belga incaricato dall'Onu di condurre l’inchiesta sull’omicidio di Rafik Ariri, ha deciso di far trasferire atti e fascicoli a Cipro, per timore che l’incendio della prateria si propaghi...
Così ieri mattina, per la prima volta, dopo che alla radio hanno detto che gli osservatori Onu stanno lasciando il sud del Paese, si sono viste piccole code di automobilisti ai distributori di benzina. Che non manca, finora. Ma insomma, che ingombro possono dare, devono essersi detti in molti, due tanichette da 20 litri ciascuna nel garage o in un sottoscala? Anche nei supermercati si vedeva più gente del solito. Nessuna frenesia, niente panico. Non ancora. Ma una piccola scorta in casa che male può fare? Era il tam-tam che risuonava dai tinelli della collina di Baabda fino a quelli di Ain al-Mreisse. Soprattutto se è roba non deperibile come il tonno e la carne in scatola, il tè e lo zucchero?
Quello che non tira, racconta sconsolato Elie Haber, 47 anni e tre figli, grossista al mercato di Sin El Fil, è l’ortofrutta. Più passano i giorni, meno sono le cassette di melanzane, di pomodori, di zucchine che vanno a posarsi sul suo vecchio bilico made in Poland. È roba che arriva dalla Bekaa e dallo Chouf, portata da camionisti coraggiosi che per mettere insieme il pranzo con la cena sfidano i missili dell’aviazione israeliana. I prezzi lievitano, naturalmente, ma gli acquirenti si tengono alla larga. «Cosa vuole che gliene freghi alla gente - geme Elie, che sul banco dei conti tiene un’immaginetta di Santa Rita - della frutta e della verdura? Le famiglie si preoccupano di mettersi in casa l’essenziale: la benzina, le sigarette, lo zucchero. Gli alberghi sono chiusi, i turisti sono spariti. Insomma, a chi dovrei venderle tutte queste lattughe?».
Eppure, nonostante la domanda scarseggi, i prezzi sprizzano all’insù. Fine delle carte di credito, degli assegni, della fiducia. Tutta la filiera: dal produttore al trasportatore fino ai banchi del mercato all’ingrosso ha riscoperto il vecchio rito del denaro frusciante. «Si vende solo in contanti», c’è scritto su un cartello nuovo di zecca esposto nello stand scalcagnato di Ibrahim Makhras, sommerso da una catasta di patate che è costretto a vendere a 650 lire libanesi al chilo (ma son là, e non le vuole nessuno) quando il mese scorso ne costavano 300.
Le chiaviche spurgano masse crescenti di profittatori, come in ogni economia di guerra. E i libanesi protestano scrivendo ai giornali. «Perché viaggiare costa cinque volte rispetto al passato? - si lamentava nei giorni scorsi una lettrice del quotidiano L’Orient-Le Jour -. Perché per una confezione da sei di acqua minerale ci vogliono 12mila lire quando ne bastavano 6mila? Perché un taxi fino alla frontiera costa 800 dollari e per andare ad Amman ci vuole uno stipendio da professore universitario?».
«La gente compra riso, pasta, legumi secchi, scatolame - conferma Marcel Zaatari, direttore del supermercato Al Diwan, punto di riferimento delle massaie di uno dei quartieri popolari della città -. Anche se finora non manca nulla. Né la verdura né la carne né il latte, anche se l’unica centrale ancora in funzione, dopo i bombardamenti nella Bekaa, è quella di Taanayel». Due conti se li è fatti anche Chafic al-Kassis, presidente del sindacato dei camionisti. «Un mese fa - dice - c’erano in circolazione in Libano 14mila mezzi pesanti e 150 mila pick up. 460 Tir sono già stati distrutti e solo il 5 per cento di quelli rimasti è in movimento».


A proposito: oggi è solo il diciottesimo giorno di guerra.

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