La "pista armena", Alì Ağca e l'attentato a Papa Wojtyla. "Riaprire le indagini"

A 44 anni dall'attentato a Papa Giovanni Paolo II spunta l'ipotesi di una "pista armena". Lo scrittore Ezio Gavazzeni: "connessioni tra l’Esercito Segreto per la Liberazione dell’Armenia (ASALA) e il Papa"

La "pista armena", Alì Ağca e l'attentato a Papa Wojtyla. "Riaprire le indagini"

"Il papà per quattro ore in lotta con la morte". Titolava così il Corriere della Sera all’indomani dell’attentato a Giovanni Paolo II, avvenuto alle ore 17.17 del 13 maggio 1981 in piazza San Pietro a Roma. A sparare tre colpi all’indirizzo del pontefice, che in quel momento stava salutando i fedeli dalla sua Jeep di colore bianco, ribattezzata dalla stampa con il nome di "papamobile", fu il turco Mehmet Ali Ağca, all’epoca 23enne. Due proiettili, esplosi con una rivoltella Browning calibro 9, colpirono e ferirono Karol Wojtyla, che fu sottoposto a un delicato intervento chirurgico a seguito di lesioni profonde riportare all'addome. L’attentatore, un militante dei Lupi Grigi, già condannato e ricercato in Turchia per l'omicidio del giornalista Abdi İpekçi, venne arrestato subito dopo la sparatoria. Il 22 luglio 1981, la Prima Corte d’Assise di Roma condannò l’imputato all'ergastolo per tentato omicidio di capo di Stato estero (il Vaticano ndr). Il 13 maggio del 2000 Ağca ricevette la grazia dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi come atto di clemenza per il Giubileo del Duemila, su richiesta di Giovanni Paolo II, e fu estradato nel Paese d’origine, dove scontò la restante pena per l’assassinio del caporedattore del quotidiano turco Milliyet.

Le successive indagini, volte a individuare mandanti ed eventuali complici di Ağca, si concentrarono sull’ipotesi della "pista bulgara" (a tale conclusione erano giunti i giudici Ilario Martella e Rosario Priore al termine delle rispettive istruttorie). Nell'ottobre del 1984 tre cittadini bulgari e altri di nazionalità turca furono rinviati a giudizio e poi assolti per insufficienza di prove. Tra gli imputati turchi solo Omar Bagci venne condannato a 3 anni e 2 mesi di reclusione per aver introdotto in Italia la pistola utilizzata da Ağca per sparare a Wojtyla. Successivamente l’attentato al pontefice fu oggetto d’indagine da parte della Commissione parlamentare di inchiesta concernente il "dossier Mitrokhin" (2002-2006).

A 44 anni dagli spari in piazza San Pietro, un nuovo libro d’inchiesta - "Il Papa deve morire", edito da Paper First - esplora le possibili connessioni tra il tentato omicidio di Giovanni Paolo II e l’Esercito Segreto per la Liberazione dell'Armenia (ASALA), puntando l’attenzione su una trattativa tra i terroristi armeni e lo Stato Italiano, conclusa proprio nel 1983. "Ho presentato un esposto alla procura di Roma per chiedere la riapertura delle indagini", spiega a Il Giornale l'autore del volume, Ezio Gavazzeni, scrittore milanese con undici pubblicazioni all'attivo, tra cui "La Furia degli Uomini" (Mursia, 2022), scritto con la collaborazione di Salvatore Borsellino, il fratello del magistrato Paolo Borsellino.

Ezio Gavazzeni, come ha scoperto l’esistenza di una nutrita documentazione che avvalora l’ipotesi di una “pista armena” dietro l’attentato a Papa Giovanni Paolo II?

"È avvenuto quasi per caso. Tempo fa, un amico che si trovava nell’Archivio Centrale di Stato, perché stava svolgendo una ricerca, trovò tra i vari faldoni un plico contenente alcuni documenti. Ne fotografò alcuni e me li inviò. Notai subito qualcosa di strano: si parlava di sei anni di minacce al Papa da parte di un gruppo terroristico armeno, in un periodo antecedente all'attentato di Mehmet Ali Ağca. Una volta recuperato l’intero faldone, mi sono accorto che c’era tutta una storia, rimasta inesplorata fino a quel momento, che tracciava una serie di connessioni tra l’Esercito Segreto per la Liberazione dell’Armenia (ASALA), un’organizzazione terroristica fondata e capeggiata da Hagop Hagopian, e il Papa. Da qui ho iniziato a ricostruire i fatti, che poi ho messo nero su bianco nel libro".

Quando venne fondata l’ASALA e chi ne faceva parte?

"L’ASALA nacque a Beirut nel 1975 sotto l’ala protettiva dell’OLP, ma soprattutto del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina guidato da George Habash. Tant’è che aveva la sede nel campo di addestramento di quest’ultimo. Era un'organizzazione terroristica di stampo marxista-leninista che, però, aveva una fortissima componente nazionalista".

Cosa rivendicava?

"L’ASALA rivendicava le terre usurpate dai turchi e voleva vendicare il genocidio armeno, avvenuto tra il 1915 e il 1923 da parte dell’Impero Ottomano. In quel momento, cioè nel 1975, l'Armenia - quel che ne restava, a dire il vero - era sotto il blocco sovietico. E dunque nelle intenzioni dell’organizzazione terroristica guidata da Hagopian c’era la volontà di rifondare la ‘Grande Armenia’".

Chi finì nel mirino dell’ASALA?

"Il primo obiettivo furono i diplomatici turchi, poi i terroristi armeni presero di mira le linee aeree e gli uffici. Ma un fatto di cui nessuno era a conoscenza, emerso durante le mie ricerche, è che proprio a cavallo di quegli anni era attiva un'organizzazione che vedeva direttamente coinvolti il Dipartimento di Stato Americano, con l’allora consigliere alla Sicurezza nazionale Henry Kissinger, il governo italiano e il Vaticano".

Che tipo di organizzazione?

"Questa organizzazione, varata con il nome di Operazione Safe Haven, si occupava di espatriare gli armeni dall'Armenia Sovietica e portarli a Roma, dove venivano smistati in 16 pensioni, e poi successivamente trasferiti negli Stati Uniti".

Perché i migranti armeni provenienti dall’Urss venivano portati a Roma?

"Anzitutto bisogna precisare che il trasferimento dei migranti armeni avveniva in aereo e non con imbarcazioni di fortuna, come invece accade oggi. Quanto alla sua domanda, va detto che in un primo momento la tappa era Beirut. Tuttavia, quando nel 1975 cominciò la guerra civile in Libano, si decise di optare per Roma".

Per quale motivo?

"Perché Roma era più sicura e la polizia italiana poteva garantire questo flusso migratorio senza particolari difficoltà, contando anche sulle organizzazioni vaticane (Consiglio Mondiale delle Chiese, la Cei eccetera) ed altre straniere, come la Tolstoj Foundation americana. Sta di fatto che il coinvolgimento dell'Italia nell'Organizzazione Safe Haven suscitò le ire dei terroristi armeni, i quali cominciano a colpire vari obiettivi nel nostro Paese e a minacciare di morte il Papa".

Nel libro lei racconta che ci sarebbero stati sei anni di minacce di morte al Papa da parte dei terroristi armeni. Inoltre l’ASALA avrebbe rivendicato alcuni attentati di tipo dinamitardo a Milano e Roma, avvenuti molti mesi prima che Alì Ağca attentasse alla vita di Giovanni Paolo II. Perché non è mai trapelato nulla al riguardo?

"Questa è una domanda ancora aperta ed è ciò che mi ha spinto a presentare un esposto in procura a Roma per chiedere la riapertura delle indagini sul tentato omicidio del Papa".

Circa l’attentato in piazza San Pietro del 13 maggio 1981, sappiamo per certo che fu Mehmet Ali Ağca a sparare tre colpi all’indirizzo di Giovanni Paolo II. In considerazione delle ostilità decennali tra Armenia e Turchia, per quale motivo
l’ASALA avrebbe ingaggiato l’allora terrorista turco? Qual era il punto di contatto tra Ağca e l’Esercito Segreto per la Liberazione dell'Armenia?

"La figura di raccordo tra Ali Ağca e l’ASALA era Teslim Töre, il leader del Partito Comunista turco TKEP - definito da qualche giornalista il 'Renato Curcio' della Turchia - che organizzò alcuni attentati con l’Esercito Segreto per la Liberazione dell'Armenia e aveva legami con l'organizzazione palestinese di Habash. Secondo le dichiarazioni rese dallo stesso Ağca, fu Töre che lo avviò ad addestrarsi, dapprima in un campo di George Habash a Beirut nel 1977, per 40 giorni, e l’anno successivo in Siria, in un campo gestito dai servizi segreti bulgari e dal KGB. L'attentatore del Papà raccontò di questi addestramenti anche in un memoriale scritto nel 1981".

A quanto le risulta, Ağca ha mai avuto contattati diretti con l’ASALA?

"Ho trovato un documento del SISDE in cui si legge che Ağca avrebbe incontrato un emissario del terrorismo armeno in un bar di Roma alcuni giorni prima di compiere l’attentato. Una circostanza che reputo attendibile, dal momento che a Roma era presente una cellula dell’ASALA. Inoltre, come si legge nel libro, ho avuto modo di intervistare un uomo che ha militato nell’Esercito Segreto per la Liberazione dell'Armenia in Italia. Lui stesso si è definito 'un armeno militante di Roma'".

Un altro particolare rilevante che emerge dal suo lavoro d'inchiesta riguarda l’esistenza di una trattativa tra lo Stato italiano italiano e l’ASALA, mediata dall’OLP e gestita da Abu Hol, il braccio destro di Arafat, a cavallo tra il 1980 e il 1983. Il documento finale venne firmato dall’allora ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro. In cosa consisteva questa trattativa?

"La trattativa, che andò avanti circa due anni e mezzo, verteva proprio a interrompere il flusso migratorio degli armeni in Italia. In buona sostanza, l’ASALA assicurava di interrompere gli attentati sul territorio italiano qualora il nostro Paese, e in particolar modo il Vaticano, si tirasse fuori dalla Operazione Safe Haven. L’accordo andò in porto, anche perché il flusso migratorio terminò proprio nell’83, come ha confermato la figlia dei proprietari di una delle 16 pensioni che ospitavano i migranti armeni a Roma".

Chi imbastì la trattativa e dove avvenivano le riunioni?

"Le riunioni, come documentato nel libro, avvenivano a Beirut. Alla trattativa partecipò anche l'allora comandante della seconda divisione SISMI, il generale Sportelli. Inoltre dai verbali si evince che durante questi summit non si parlava solo di armeni, ma anche di traffico di armi e dei rapporti tra il terrorismo mediorientale e le Brigate Rosse".

Sembra che l’ex magistrato Ilario Martella, il giudice istruttore che indagò per primo sull’attentato a Papa Giovanni Paolo II, non fosse a conoscenza di questa trattativa.

"Proprio così. Ho intervistato il giudice Martella e ha rivelato di essere all’oscuro dell’accordo tra lo Stato italiano e l’ASALA, nonostante all'epoca avesse contatti giornalieri con i servizi italiani e 'più di una volta' ebbe modo di incontrare l’allora ministro degli Interni Scalfaro".

Il motivo?

"Difficile a dirsi. Lo stesso giudice Martella è rimasto sorpreso, visto che durante la sua istruttoria interpellò i capi dei servizi italiani come testimoni e non gli fu riferito alcunché".

Il giudice Martella sostiene che dietro l'attentato in piazza San Pietro vi sia la cosiddetta "pista bulgara". Come si concilia questo scenario con l'ipotesi del terrorismo armeno?

"Non credo che uno scenario escluda l'altro. La mia idea è che vi fosse un disegno molto più ampio, che coniugava più volontà e molteplici interessi attorno alla figura di Papa Giovanni Paolo II. Ağca fu l’esecutore materiale dell'attentato, ma dubito che abbia agito come un 'lupo solitario'".

In un passaggio del testo scrive che "qualcosa del terrorismo armeno dietro l’attentato al Papa interseca la vicenda della povera Emanuela Orlandi". Quindi riporta un appunto del SISDE con oggetto "Emanuela Orlandi" da cui emergerebbe quella che lei definisce "una curiosa coincidenza". Di che si tratta?

"Mi riferisco a una telefonata fatta dai presunti rapitori di Emanuela Orlandi al padre della giovane l’8 luglio del 1983, circa un mese dopo la scomparsa. Il telefonista commette un lapsus, apparentemente freudiano, nel fare riferimento a una precedente telefonata all'agenzia ANSA, pronunciando una parola che suona come ASALA. A parer mio, questo
errore si presta a una duplice interpretazione".

Cioè?

"Da un lato potrebbe rivelare l’appartenenza del telefonista all'organizzazione terroristica armena, dall'altro questo 'errore' potrebbe essere stato commesso al fine di depistare gli inquirenti che all’epoca stavano indagando sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Peraltro, dopo la pubblicazione del libro, ho trovato un’altra curiosa coincidenza che, però, mi riservo di approfondire successivamente".

Ritornando all’inchiesta, crede sia possibile individuare i mandanti dell’attentato al Papa a distanza di 44 anni?

"Il mio

lavoro di ricerca non termina qui, ma non sta a me trarre le conclusioni. Credo, però, che si possa definire uno scenario più realistico riguardo all’intera vicenda. Motivo per il quale auspico la riapertura delle indagini".

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