Cultura e Spettacoli

BELLO Il silenzio d’oro nella cultura spagnola

Pepín Bello Lasierra, il grande amico di Federico García Lorca, Salvador Dalí e Luis Buñuel, con i quali ha vissuto uno straordinario sodalizio negli anni Venti nella Residencia de Estudiantes di Madrid, ha da poco compiuto 103 anni. Il mondo della cultura spagnola gli ha tributato grandi onori (in occasione del suo centenario il re Juan Carlos lo ha insignito di un alto riconoscimento), mentre Pepín continua a stupire tutti con la sua eccezionale longevità e la portentosa memoria.
L’unico vezzo che lo distingue è il rifiuto del diminutivo «Pepín», con cui lo chiamavano gli amici dell’epoca felice, a favore del suo vero nome José: forse il segno di una distanza che non accetta confronti e omologazione fra il periodo dorato della giovinezza e quello odierno, per lui povero di stimoli intellettuali. Ma l’anziano signore dai capelli bianchi, il volto placido, sorridente, i baffetti ben curati, rimane per noi tutti l’intramontabile Pepín, icona del mitico drappello dei giovani artisti vincolati all’ambiente della Residencia, inventori di giochi e poesie deliranti (i cosiddetti glifos) e, soprattutto, iniziatori di un linguaggio dissacratorio che anticipa l’esperienza della scrittura automatica.
Numerose foto dell’epoca lo ritraggono insieme gli amici di sempre: Federico, Salvador e Luis, ai quali suggerisce immagini e gag che ritroviamo poi in molte delle loro opere. È sufficiente ricordare la nota scena del pianoforte, con sopra delle carogne di asini, trascinato da due preti maristi, che appare all’inizio del film surrealista Le chien andalou, scritto da Dalí e Buñuel, per accorgersi che si tratta di uno spunto di chiara impronta «pepiniana», sebbene il nostro autore sia sempre stato riluttante ad ammetterlo. L’unico vanto che rivendica è la straordinaria amicizia vissuta con i tre compagni, anche quando soffiava il vento delle polemiche personali, di cui è prova la ricca documentazione rimasta (foto, lettere, dediche, omaggi creativi), testimonianza profonda del sincero legame che li univa.
A questo proposito ricordo che in una serata trascorsa con Pepín e durata fino all’alba, mentre i commensali a poco a poco si congedavano vinti dalla stanchezza, il nostro gagliardo ospite, animato da frequenti copitas, raccontò la sua straordinaria amicizia con Buñuel. Luis era un ateo assoluto che, come diceva Ramón de la Serna, «non aveva neppure l’osso sacro»; era un terribile machista che segregava le sue donne allontanandole dagli amici. Dopo la fuga in Francia, lo aveva invitato numerose volte a Parigi perché voleva presentarlo a Breton, Tzara e a Picasso, al quale aveva sempre parlato di lui.
Anche con Dalí il rapporto è stato intenso. Salvador era di una timidezza patologica, incapace di fare qualsiasi azione normale, come acquistare i biglietti per il cinema o leggere l’orologio. Quello che aveva al polso, regalo del padre, lo teneva fermo sulle 4 in modo da poter rispondere sicuro: «Sono le quattro». Dalí non aveva altro interesse che la pittura: «Anche dal punto di vista sessuale, per lui era lo stesso una donna, un uomo o un mobile».
Ho rivisto Pepín poco tempo fa, in occasione dell’uscita del libro di David Castillo e Marc Sardá, Conversaciones con José «Pepín» Bello (Anagrama, pagg. 227, euro 19). Sempre lo stesso, sorridente e loquace, lucido nel raccontare i fatti, nel rispondere alle domande che, come in questo nuovo libro di interviste, tornano a chiedere dello straordinario rapporto che lo ha unito ai tre geni della cultura spagnola. Pepín Bello non è uno storico ma è la storia, il testimone vivente di un periodo magico a cui guardiamo con ammirazione. Il volume fornisce ulteriori aneddoti e notizie, a partire da quella del giovane Dalí e della corrispondenza ricevuta dalla madre ma letta da Pepín, poiché Salvador aveva difficoltà a comprenderne la grafia. Da cui l’invito perentorio all’amico: «Bene, poiché hai letto la lettera, adesso rispondi». E quindi, subito dopo: «Poiché è tua la risposta, firmala». Invito che il compagno s’affrettava a eseguire, e che ora così commenta: «Immaginate che avrà pensato la povera madre nel ricevere le lettere di Salvador, scritte e firmate da un tal Pepín Bello».
Non mancano le domande intorno alla figura di García Lorca, con il quale Pepín condivise a lungo la stanza della residenza madrilena («Era una persona luminosa, splendente di verità»), sul suo modo di lavorare («scriveva e correggeva continuamente»), sulla sua omosessualità («di cui appena si sussurrava»), sulla sua straordinaria preparazione («possedeva un’enorme cultura, a differenza di Dalí, il cui incanto consisteva precisamente nel fatto che non sapesse nulla»). Domande che puntano a chiarire la sua incerta ideologia («Federico è l’essere più apolitico che io abbia mai conosciuto, odiava la politica»; «Non parteggiava né per la Repubblica, né per la causa nazionalista»). All’ipotesi formulata che, se fosse sfuggito alla morte, il poeta avrebbe scelto l’esilio, interviene secco Pepín: «No, sarebbe rimasto qui in Spagna, tanto se avessero vinto gli uni come gli altri».
Altri nomi noti (Ignacio Sánchez Mejías, Rafael Alberti, José Bergamín, Ortega y Gasset, ecc.) entrano nel cerchio delle frequentazioni del nostro autore. Resta la domanda che nessuno ha mai osato fargli: perché, con la sua indiscussa genialità, ha preferito tacere? Possiamo provare a rispondere, a giustificare il suo silenzio di fronte al miracolo quotidiano della creazione vissuto con i tre amici della Residencia. Confessa Pepín nel nuovo libro: «Li ricordo ogni giorno, e sebbene sia più di settant’anni che sono morti, come è il caso di Federico e Ignacio, io li richiamo ogni giorno nella mia memoria, e così non diventeranno mai vecchi».

Il tempo della stagione mitica di Federico-Salvador-Luis si è fermato, per Pepín: egli continua a vivere con loro, con la loro grazia e fantasia, eternamente giovane e felice.

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