Roma«Molta della responsabilità del degrado delluniversità italiana è di quegli stessi professori che in questi giorni sono sulle barricate a protestare contro la riforma Gelmini». A gridare che il re (anzi: il barone) è nudo è uno che nelluniversità ci vive e ci crede, pur tra mille disillusioni. Alessandro Orsini, 35 anni, ricercatore di Sociologia politica allUniversità di Roma Tor Vergata, sette libri al suo attivo tra cui Anatomia della Brigate rosse, pubblicato nel 2009 da Rubbettino e vincitore del premio Acqui Storia 2010 e in corso di pubblicazione allestero per i tipi della Cornell University, una delle più prestigiose università americane, si definisce elettore di centrosinistra «da sempre» ed è stato a lungo nel comitato di redazione della rivista Mondo Operaio. Si arrabbia perché «in queste ore si sta decidendo di dare soldi per assumere in ruolo professori associati, quando quei soldi si sarebbero potuti investire per fare entrare i precari della ricerca». Ma trova assurdo fare le barricate contro «una riforma che contiene aspetti che vanno assolutamente incoraggiati. E che comunque non è stata ancora attuata, quindi i suoi effetti non sono analizzabili ma semmai ipotizzabili».
Quali sono gli aspetti positivi della riforma Gelmini?
«Principalmente il tentativo di introdurre il principio del merito. Oggi professori che non hanno pubblicato nulla di importante e che non hanno voglia di lavorare sono trattati allo stesso modo di colleghi che si sono distinti allestero, che dedicano la propria vita agli studi. Per troppo tempo le università scadenti hanno avuto accesso agli stessi finanziamenti delle università eccellenti. Il dibattito nei confronti della riforma Gelmini è stato carente. I giovani che hanno dato lassalto al Senato devono essere meno facinorosi e più riflessivi: i mali attuali delluniversità italiana non sono colpa della Gelmini».
E di chi sono colpa?
«La prima domanda da porsi è: chi ha gestito luniversità italiana in tutti questi anni? Certo, non la Gelmini ma i professori, alcuni dei quali hanno una cultura istituzionale molto deficitaria. In Italia non esiste niente di più privato delluniversità pubblica. Per cui i concorsi sono considerati proprietà personale di chi li ha banditi, in alcuni casi i primi a trovare spazio sono i figli, gli amanti e i parenti vari dei rettori e dei professori ordinari. Per non parlare di alcuni gruppi di potere che selezionano non in base al merito ma in base alla disponibilità nel rendersi complici di futuri imbrogli e di future truffe. E poi alcuni professori non rispondono in alcun modo di quello che fanno e di quello che non fanno, come disertare le lezioni o non pubblicare libri. Ho visto colleghi scaricare da internet ricerche di istituti e pubblicarle con il proprio nome. Non faccio nomi ma è una cosa facilmente documentabile».
Dipinge un quadro spaventoso...
«Io in Italia ho insegnato in sette università e posso affermare che, con alcune eccezioni importanti, luniversità italiana è una realtà profondamente corrotta. Accade che ricercatori respinti in ruolo per mancanza di pubblicazioni nel triennio si vedano bandire concorsi per professore associato da propri parenti grazie alle loro tessere di partito, che in molti casi, sono di sinistra. Sono da sempre di sinistra, ma quando si parla di università mi devo vergognare perché, in alcuni casi, la sinistra non difende i più deboli, i precari, ma i figli e le amanti dei rettori, dei presidi, dei direttori di dipartimento».
E nessuno si ribella?
«Io ho fatto ricorso alla magistratura per un concorso in cui un membro della commissione ha denunciato gravi anomalie e su cui sta indagando la Digos. Per tutta risposta mi è stato detto, da influenti professori che ora protestano contro la Gelmini, che non avrei più vinto i futuri concorsi e che mi sarei dovuto rifugiare allestero».
È questa la strada? Andar via dallItalia?
«Mi invitano di continuo allestero, ma penso che sia arrivato il momento di restare qui e di combattere.
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