Che un importante monumento dell'arte del Novecento sia non un ciclo di affreschi o una serie di dipinti, ma un libro illustrato, spiega il limite di conoscenza e di riconoscimento che è toccato e che tocca ad artisti straordinari e universali, come Amos Nattini, ieri, e Luigi Serafini o Roberto Innocenti, oggi. L'impegno di questi artisti è sommo, e totale; ma la celebrazione della loro impresa è limitata ai confine stessi del libro, anche se in folio o di grandi dimensioni.
A una titanica impresa, in tempi difficili, tra il 1939 e il 1940, si applicò Amos Nattini, così immerso nel racconto illustrato della Divina Commedia , da perdersi, non riuscendo neppure a raggiungere la dimensione retorica e popolare di Gustavo Dorè, che pure si era immerso negli inferi e innalzato in Paradiso.
Per Amos Nattini la Divina Commedia è l'unico mondo possibile. Così che egli, umanamente appartenendo al nostro, ma spiritualmente a quello descritto da Dante, può essere alternativamente definito un pittore dell'altro mondo o il pittore dei due mondi.
Nessuna fedeltà a immagini o a iconografie prestabilite, ma una fantasia rigenerante, che dà corpo e forma alle parole.
Per raccontare bisogna illustrare, in un perpetuo stato di visionarietà. Illustratore, Amos Nattini, lo è stato per tutta la sua vita artistica, senza deroghe. Anche se in fondo non lo hai mai fatto professionalmente, dato che le sue due imprese illustrative più note, le dannunziane Canzoni della Gesta d'Oltremare , che ne segnano gli esordi in un'età ancora adolescenziale, e la Divina Commedia , alla quale dedica, oltre che la restante giovinezza, anche un parte importante dell'età ormai adulta, impiegando più tempo di quanto non ne fosse servito allo stesso Dante, sono dovute più a integerrima volontà personale che a qualunque obbligo di committenza.
Anche nei lavori successivi al 1940, in Nattini rimane sempre prevalente l'esigenza di concepire il fatto artistico come visualizzazione, se non di una narrazione già giunta allo stadio di testo letterario, tanto più stimolante e impegnativa quando ci si trova a dover fornire un correllativo dei versi dannunziani o danteschi, di una che potrebbe comunque ambire ad altrettanto (si pensi, per esempio, a certi soggetti popolari del dopoguerra, da involontario realismo socialista, che non aspetterebbero altro che un racconto a cui riferirsi, con le figure che, rispetto agli eroismi atemporali dei decenni precedenti, hanno assunto fattezze più quotidiane e bonarie, da illustrazione per ragazzi di una volta).
Imaginifico, Nattini, nel senso più dannunziano del termine. Ma fino a che punto era stato dannunziano, rispetto ad altri illustratori del Vate? Certamente lo era stato nello spirito civile, incline, almeno nell'età più giovane, all'alto sentire e al gesto ardito, condividendo le aspirazioni di un'intera generazione «azionista» che, prima ancora del fascismo, pretendeva un'Italia diversa da quella borghese e pusillanime che doveva apparire ai suoi occhi. Quanto al dannunzianesimo del gusto, sentimentale prima ancora che estetico, qualche riserva la manterrei. Nel rispetto della sua formazione artistica, piuttosto canonica, Nattini è un convinto anatomista, concependo la raffigurazione del corpo, un corpo al passo con il suo tempo, laico, liberalizzato da ogni possibile rimorso cristiano, come momento privilegiato della creazione artistica. Eppure, c'è renitenza, istintiva, forse, ma sostenuta, quasi virile, direi, nello sposare fino in fondo lo stesso tipo di corporeità riscontrabile nel simbolismo di Sartorio, De Carolis o Cellini, segnata da una sensualità ben più spiccata, fatta di fisicità generose, languidi spasimi, ammiccamenti lascivi e pose coreutiche, in immediata coerenza con il decadentismo dannunziano. Rare, in Nattini, le sinuosità e le morbidezze gratuite, non solo in senso formale, all'insegna dei nuovi modelli promossi dal modernismo floreale, ma anche in senso morale, come sintomatiche di carni troppo compiaciute della propria debolezza. Al contrario, il corpo, in Nattini, sembra implicare la coscienza di una responsabilità, nei confronti del mondo e della storia, caricandosi, in tal modo, di valenze nervose che alludono a una certa inquietudine, in alcuni casi anche drammatica, per quanto prevalentemente statica, che rimanda di certo al michelangiolismo di De Carolis, seppure stemperato del titanismo più roboante, ma anche, fosse pure per semplice associazione d'aspetto, a sensibilità espressive di latitudine diversa rispetto a quelle degli illustratori dannunziani più ortodossi, nordiche, come quella di Hodler, per esempio. Tutto ciò è particolarmente evidente nel primo, grande lavoro post-dannunziano, la Commedia , che dal punto di vista artistico si può dire imperniata sul processo di graduale purificazione, da cantica a cantica, del corpo umano, protagonista assoluto dell' Inferno , un corpo atletico, di strabocchevole invadenza visuale, ancora maledettamente terrestre nella sua plastica solidità, sebbene rotondità e muscolature risultino sartorianamente asciutte, scandite da un disegno che se da una parte conserva, italicamente, un forte sapore neo-rinascimentale, toscano nello specifico, fra Donatello, Pollaiolo, Botticelli e Signorelli, dall'altra riesce a soddisfare le istanze di un realismo d'orizzonte più internazionale, rivolto in particolare all'area germanica, tanto nella direzione di una generica esigenza di moderna sachlichke it , quanto, all'opposto, per la fedeltà a un certo ideale di accademico arianesimo, quantunque tutto pittorico, non certo politico. La maggiore eccezionalità del Nattini «infernale» sta comunque nell'abbinare la fisicità corporea che abbiamo appena provato a descrivere, da pieno Novecento, ben più solerte di quella tout court dannunziana nel raccogliere il richiamo del ritorno all'ordine, ma in un modo originale che niente ha a che fare, per esempio, con l'afflato primitivista di Sironi o il misticismo pierfranceschiano di Casorati, a una tecnica che doveva essere già avvertita come démodé , da primordi del secolo, fortemente ancorata al divisionismo previatiano, che nel Purgatorio prova a spingersi ancora più avanti, svaporando le precedenti oggettività anatomiche in una clamorosa riedizione del Preraffaellismo, non escluso l'aspetto della dedizione monacale al mestiere, davvero atipica nell'Italia di allora, anche per la sua implicita esterofilia.
Infine, nell'ascetismo dominante del Paradiso , il corpo pare recuperare un suo spessore, anche espressivo, ma in una chiave chiaramente mediata, funzionale al recupero di una grande tradizione illusionistica, quella di Correggio, Lanfranco, Baciccio, tanto per capirci, che viene sviluppata pittoricamente sulla base di nuove suggestioni cromatiche, anche di provenienza eterogenea - le luminescenze artificiali dell'Empireo potrebbero ricordare benissimo certi cieli di Dalí - e di un'aggiornata spettacolarità scenografica che attinge ugualmente dalle parate di massa, così importanti nell'autorappresentazione dei regimi totalitari, come dai film danzati, hollywoodiani, di Busby Berkeley.Certo, si tratta, in ogni caso, della fine di un'epoca. Anche artistica, probabilmente. Oggi una rinascita.
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