
Mia madre è sempre stata una grande lavoratrice. Per lei il lavoro era al primo posto e il motivo che la indusse a diventare un'instancabile sgobbona è semplice oltre che pratico: essendo rimasta vedova a 36 anni con tre figli, di cui io ero il minore, dovette per forza di cose eleggere l'operosità al vertice dei propri interessi, altrimenti saremmo morti di fame. Ha svolto tanti mestieri e a un certo punto si è messa anche in proprio: vendeva la pasta Combattenti, che oggi non viene più prodotta, e il riso Gallo. Qualche anno fa ho conosciuto i proprietari del marchio Gallo e ho raccontato loro che mia madre negli anni Cinquanta commerciava la materia prima. Sono rimasto sorpreso e commosso allorché mi hanno informato che all'epoca a Bergamo si registravano elevati consumi della loro merce. La mamma, purtroppo, esagerava nella quantità di impegno e tempo profusi nella fatica. Noi tre fanciulli rimanevamo a casa ad attenderla per giornate intere, accuditi dalla zia Tina, sorella di mia madre, la quale si occupava delle faccende domestiche, dei pranzi, delle cene e ci faceva un po' da bambinaia, seguendoci pure dal punto di vista educativo. La zia non ebbe figli suoi, e crebbe noi come se lo fossimo.
Ogni sera aspettavamo l'arrivo della mamma dall'ufficio e in me questo creava una sorta di attesa angosciosa. Non volevo semplicemente vederla, ne avevo un bisogno soffocante. Abitavamo in un palazzo che aveva una portineria munita di un campanellino, cosicché, quando qualcuno entrava nell'atrio, si udiva un acuto «tin» che risuonava rimbalzando tra le pareti degli edifici circostanti. E ogni volta che quel maledetto campanello suonava, io mi precipitavo alla finestra che spesso era appannata e rapidamente la pulivo, e guardavo giù per verificare se poi la mamma avrebbe attraversato il cortiletto che dava accesso alle scale. Spesso erano falsi allarmi. E la delusione era ogni volta più cocente. Quando era lei, mi catapultavo giù dalle scale a velocità supersonica per abbracciarla il prima possibile, avvinghiandomi a lei con tutto me stesso. Ella ci abbracciava tutti, ma prevalentemente ero io da solo ad accoglierla all'ingresso del portone. Nutrivo un amore folle verso mia madre.
Ricordo che una volta in tv qualcuno mi chiese se avessi sofferto per il fatto di essere rimasto orfano così piccolo e io, che amo sempre dare risposte provocatorie le quali non dicono la verità, risposi: «No, anzi... Ne restai molto contento, poiché invece di avere due genitori che mi rompevano le balle ne ho avuto uno soltanto». E in effetti, la mamma le balle le rompeva, eccome. Ci teneva molto all'igiene personale e delle quattro mura, all'istruzione, all'ordine. Coltivando il mito del lavoro, era rigorosa con se stessa e con gli altri. La sera ci metteva dentro la vasca e ci strigliava, e non c'era nulla da fare: non si sfuggiva. Giunta la domenica, andavamo a trovare i nonni paterni, i quali non abitavano distante da noi. Quelli materni erano già morti. Durante il tragitto scoppiavano liti furibonde tra noi figli dato che volevamo camminare tutti a braccetto di nostra madre. Avevamo stabilito dei turni. L'unico schiaffo che ho preso dalla mamma fu nel corso di una di quelle domeniche: pretendevo di non rispettare il turno e di stare sempre avvinghiato a lei e me la presi con mia sorella che non si spostava, per lasciarmi il posto al fianco della mia regina.
Avevamo con mia madre molta confidenza, anche perché ella, nonostante i suoi rigori, era tollerante sul piano del comportamento, bastava che non commettessimo errori gravi. Possedeva una mentalità piuttosto aperta. Forse perché non le bastava la concessionaria di pasta e riso, la mamma acquistò un bar. Avrò avuto circa 12 anni allora e decisi che era giunto il momento di darle una mano, così, dopo la scuola, mi recavo al locale e facevo caffè e cappuccini. Insomma, lavoravo come barista. E siccome vendevamo pure il latte, che molte famiglie volevano consegnato a domicilio, a una certa ora del pomeriggio caricavo sulla mia bicicletta le bottiglie di vetro sigillate con grossi tappi di metallo e andavo nei condomini, raggiungendo fino all'ultimo piano senza ascensore, per recapitare l'acquisto. Non ho mai preso una lira di mancia poiché l'abitudine quotidiana rende tutto obbligatorio, pure la consegna del prodotto. Lavorare mi piaceva, mi faceva sentire più grande e utile. Va da sé che gli spazi per lo studio erano ridotti a poco. Quando mio padre era in fase preagonica, manifestò il desiderio di vedere i suoi bambini prima di andarsene. Fui quindi introdotto nella stanza dove egli giaceva. Il babbo era messo parecchio male, mi appariva pallido, dimagrito, consumato. Intuivo che era sfinito, sebbene avessi solo 6 anni. Aveva stampata sul viso un'espressione sofferente che non riusciva a volgere in un sorriso nemmeno ora che io ero lì, al fine di rassicurarmi. Lo baciai. Mi osservava con gli occhi umidi. Eppure la cosa che più mi colpì e mi trafisse il cuore fu ciò che vidi uscendo da quella camera di ospedale, accompagnato dalla zia Armida, la sorella di papà. Sulla sinistra, in un angolo, poco prima dell'uscio, se ne stava una donna con il viso rivolto contro il muro, in piedi, le braccia conserte e sollevate, come se si rannicchiasse in quello spazio. Indossava un vestito verde e la sua schiena era scossa da singhiozzi che sembravano spaccarle in due il petto a un ritmo costante e muto. Era la mamma.
Mi avevano detto che il babbo era malato e tutte quelle cose che si raccontano a un bimbetto che sta per diventare orfano. Io speravo che papà guarisse e tornasse a casa. Il giorno seguente alla mia visita in ospedale corredata dall'estremo saluto a mio padre si verificò una scena orrenda. Mi trovavo a casa in compagnia di Mariella e stavo giocando allorché sentimmo che il cancello del nostro palazzo veniva aperto per accogliere una delle rare automobili che circolavano all'epoca. Corremmo alla finestra, era la macchina di papà, quella che la Provincia gli aveva messo a disposizione dato che egli era un alto funzionario provinciale. Per noi voleva dire soltanto una cosa: finalmente papà era tornato. Ci precipitammo nell'atrio cantando allegramente lungo le scale un ritornello che faceva così: «È guarito il babbo, è guarito il babbo». Giunti al pianterreno, restammo di sasso quando constatammo che dall'auto uscì soltanto zia Armida, la quale ci abbracciò forte. Quasi disperatamente. Papà era appena morto.
Bisognava andare al funerale, allora ci vestirono in modo elegante. E mi obbligarono a indossare delle orribili calze grigie. Ebbi un moto di ribellione poiché esse mi ricordavano gli orfanelli che, abbigliati tutti di grigio, seguivano per alimentarli i cortei funebri. Mia sorella mi disse: «Ma che ti frega? Mettitele queste calze grigie e falla finita!». E io risposi rabbioso: «No, a me gli orfani stanno sulle scatole!». Mariella, nonostante la tragica circostanza, scoppiò a ridere. Mia madre al funerale fu composta. L'esibizione delle emozioni, belle o brutte che siano, dalle nostre parti è un tabù. Era l'8 settembre, quindi subito dopo riaprirono le scuole. Dai registri risultava che ero diventato orfano e i maestri si sentivano obbligati a rendermi bersaglio di frasi fatte, sebbene sentite. Il che mi disturbava, quei panegirici mi mettevano a disagio. E provavo una strana vergogna davanti ai miei compagni, che li udivano. Vissi la mia condizione come una penitenza, come qualcosa di fastidioso. Già allora non mi andava proprio di essere compatito.
Durante l'estate i miei mi spedivano per una o due settimane a Chiuduno, un paesino limitrofo a Bergamo dove aveva una bella villa la sorella della nonna materna, la quale mi ospitava di buon grado. Il fratello di questa zia gestiva una trattoria, munita di un giardino in cui la gente del posto si dilettava a bocce e a carte, tirando spesso bestemmie con una disinvoltura impressionante. Tanto che nella mia coscienza di bimbo neanche capivo che quei termini fossero vietati. Per me erano un modo come un altro per esprimere contrarietà o disappunto. Memorizzai quelle espressioni, anche perché le ascoltavo a ripetizione, e una volta tornato in famiglia, a Bergamo, le sfoggiai giocando a carte con mia sorella. Ogni volta che mettevo sul tavolo una carta urlavo una blasfemia. Notavo intorno a me un certo stupore. Mia madre era inorridita, Mariella mi guardava con la bocca spalancata e come fossi posseduto. Intervenne mio padre che raccomandò a tutti: «Zitti, zitti. Non fategli notare che non sono frasi pronunciabili. Se ne dimenticherà tra qualche giorno. Se gli poniamo il divieto di dirle, siamo rovinati, non farà altro». Non vi è dubbio che il babbo avesse già afferrato la mia indole ribelle. Di stronzo patentato. Di domenica io e papà andavamo a fare due passi lungo le mura di Bergamo. Ricordo che mi teneva per mano. Era sempre elegante, curato, ci teneva a presentarsi al meglio. Il suo armadio straripava di bei completi di vari colori, portava scarpe inglesi e il suo stile era molto vicino a quello che oggi è il mio. All'improvviso mia madre cadde in disgrazia. Le sue attività fallirono. Allora mi adoperai per sostenere la famiglia, sebbene non fossi che un ragazzino. Facevo il commesso e nel fine settimana pulivo anche le scale dei condomini. Sgobbavo sempre. Dopo qualche tempo la mamma trovò un impiego presso l'Automobile Club, diventando ben presto dirigente. Aveva un temperamento forte, come tutte le donne che hanno fatto parte della mia esistenza. Penso alla zia Armida, che già negli anni Cinquanta era un amministratore dell'Ospedale Maggiore bergamasco, o a sua sorella, la zia Narcisa, laureata e dirigente scolastico.
La mamma morì a 90 anni e lavorò fino a 75. Il giorno in cui ha smesso di faticare si è ammalata di demenza senile, non ricordava più gli eventi recenti, a volte mangiava e un attimo dopo si dimenticava di averlo fatto. Ella non poteva più vivere da sola né con la zia Tina, la quale non era in grado di controllarla. Accadeva che uscisse di casa e poi non ricordasse più dove abitava. Un dì la mamma fu rinvenuta sull'autostrada. Quando ci segnalarono che si trovava lì, ci recammo sul posto con la polizia. Prendemmo uno spavento e questo episodio ci persuase che la scelta migliore sarebbe stata quella di portarla in una casa di cura. Ne selezionammo una piuttosto bella dove le assegnarono una mansarda dotata di un salotto, un ampio bagno e la camera da letto. Ogni domenica andavamo a farle visita e lei ci chiedeva puntualmente quando sarebbe potuta rincasare. Tiravamo avanti con delle pietose bugie. Rimase lì un paio d'anni.
Non ero mai stato il suo figlio prediletto, aveva le sue preferenze tra le quali io non rientravo. Perciò rimanevo stupito ogni volta che varcavo la soglia della sua mansarda e la trovavo sempre più carica di mie gigantografie con le quali aveva tappezzato le pareti. Allorché entrò in uno stato di agonia, sentire i suoi lamenti mi era insopportabile.
La vedevo soffrire e mi sentivo impotente. Mi scagliai contro uno dei medici della clinica. Gli dissi che non era accettabile che mia madre patisse tanto, lo incitai a farle un'iniezione per darle un minimo di sollievo. Le fecero una puntura e dopo un paio d'ore ci lasciò. Ricordo che pensai: «Cavolo, reggo bene il colpo. Quasi non sento niente». Subito mi diedi da fare con le pratiche burocratiche, preparai il funerale, pagai le imprese, non mi sentivo particolarmente sconvolto. Portati a termine codesti obblighi, raggiunsi la macchina, chiusi lo sportello, accesi il motore ed esplosi in un pianto dirompente. Incontenibile. Avevo come una pesante sensazione della fine di tutto, della rescissione totale e irreversibile delle mie radici. Pure la zia Tina era morta da poco, e ora mi abbandonava mia madre.
A proposito della zia Tina, anche lei trascorse gli ultimi mesi della sua vita in una casa di cura. Un giorno mio fratello Ariel le fece visita e lei era seduta accanto a una signora che non faceva altro che lamentarsi.
La zia si accostò ad Ariel e gli disse neanche tanto sommessamente: «Questa qui continua a rompermi i coglioni, se sapesse che domani mattina è già andata a fare in culo...». E così fu. Le donne della mia famiglia sono straordinarie.La risposta di Valeria Braghieri
Le donne con gli occhi grandi che trasformano in giardino la terra desolata della vita
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