Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
Berlusconi aveva bisogno di Bush? Direi che è vero il contrario: era Bush ad aver bisogno di Berlusconi. È il succo, sorprendente e stimolante, delle impressioni che dell’ultimo episodio di diplomazia italoamericana si è fatto Joseph LaPalombara, politologo e scienziato della politica, che da molti decenni segue le vicende del nostro Paese. E quasi si mostra sorpreso quando lo interrompo nei suoi studi a Yale e gli pongo la domanda solita di questi giorni: quali conseguenze potrà avere per Berlusconi e per l’Italia la visita negli Usa? «Le conseguenze per l’Italia provi a tirarle lei, oppure le lasci ai politologi italiani, ai politici, a coloro che hanno a che fare con la vostra politica estera...».
E per la nostra campagna elettorale...
«Certo, anche quella. È assolutamente normale che durante un dibattito sotto le elezioni politiche in un Paese si parli anche dei rapporti con l’estero. E il modo in cui questi sono stati gestiti e si intende gestirli fanno parte, evidentemente, del contenzioso, dei bilanci che si traggono dell’attività di un governo, del giudizio che gli elettori sono chiamati a dare. Succede ovunque e sarebbe grave se non succedesse. Sarebbe una campagna elettorale monca, o terribilmente provinciale. Ci mancherebbe altro. Ma tutto questo, le ripeto, è affar vostro. Io sono americano, a me interessano le conseguenze che gli sviluppi diplomatici e in genere i rapporti con gli altri Paesi, possono avere sulla nostra politica interna, sulle decisioni e gli umori dei nostri elettori. Certo, sarebbe meglio se fossero più informati...».
Ma della visita di Berlusconi sono stati informati. L’hanno trasmessa in diretta in tv.
«Sì, ma non ne hanno discusso abbastanza. Provi ad aprire il New York Times, la Washington Post, il Wall Street Journal. Si racconta quel che è successo. Oppure si pongono domande come quella che lei ha fatto a me: sulle eventuali risonanze in Italia. Ma, ripeto, sono le risonanze che avremo qui che sono più importanti. Quando arriva un visitatore da qualche Paese più esotico del vostro se ne parla di più, perché fa più colore. Che ne so, la Costa d’Avorio, l’Algeria, la Libia, l’Egitto. L’Italia conta evidentemente molto di più. E in questo momento giunge molto opportuna. Ne abbiamo bisogno».
Vuol dire che è l’America ad avere bisogno dell’Italia?
«In questo momento sì. A cominciare da Bush che certamente ha più bisogno di Berlusconi (al contrario di quello che molti suoi compatrioti mostrano di credere) di quanto Berlusconi abbia bisogno di lui».
Interpretazione interessante.
«Non è un’idea mia. Guardiamo i fatti. Guardiamo l’ultimo sondaggio sull’approvazione popolare per il presidente: è caduta al 34 per cento, un minimo storico. E per quanto riguarda l’Irak i giudizi positivi sono addirittura al di sotto del 30 per cento. In questa situazione la voce di un alleato leale, e di un Paese importante come il vostro, è benvenuta. È un aiuto».
Ma Bush non è nel bel mezzo di una campagna elettorale.
«No, ma è impegnato in qualcosa di molto più importante: governare l’America, guidare l’Occidente, aggiustare quegli aspetti della politica estera planetaria degli Stati Uniti che possono essere riveduti o migliorati, pur continuando a darle un significato comune, coerente. Un obiettivo che si può raggiungere molto meglio con la collaborazione dei Paesi alleati attraverso il loro consiglio e la loro lealtà. Berlusconi ha dato prova in questi anni dell’uno e dell’altra».
Bush ha detto ieri l’altro, subito dopo il colloquio a porte chiuse, che «non andiamo d’accordo su tutto». Secondo lei si riferiva all’Irak, alla Palestina o a cosa?
«Sulla Palestina mi pare non ci siano, nonostante la difficoltà delle scelte da compiere, differenze importanti. Sull’Irak Berlusconi non ha detto nulla di interamente nuovo: si è limitato a confermare che il contingente militare italiano ritiene di aver assolto il suo compito e di potere adesso passare la mano, nel suo settore, alle forze dell’ordine irachene che noi abbiamo addestrato. Neppure Bush, del resto, desidera rimanere in Irak per l’eternità. Le maggiori responsabilità degli Stati Uniti gli impediscono di darsi un calendario, ma trova perfettamente comprensibile che l’Italia lo faccia. Soprattutto per come lo motiva, in modo assolutamente non polemico, senza “strappi” e senza dare carburante alle polemiche fra America ed Europa».
Anzi le ha giudicate negativamente, come un grave rischio.
«Soprattutto. Ha parlato “del pericolo che un’Europa unita cerchi di definire la propria identità in contrasto con l’America”. Una posizione che si distingue da quella di altri Paesi del Vecchio Continente».
Ha aggiunto che l’«integrazione politica e istituzionale dell’Europa non deve significare la creazione di una fortezza chiusa al resto del mondo».
«Ciò non accadrà finché ci saranno governi come quello italiano che si guardano dal cadere in questa tentazione, ma tengono sempre presente che l’Europa ha bisogno dell’America, per lo meno quanto l’America ha bisogno dell’Europa. Che non è poco, soprattutto oggi».
E come giudica l’accenno di Berlusconi alla «guerra di civiltà»? Può apparire critico nei confronti di una formula adottata ormai da molti.
«Quando Berlusconi dice che la sfida del terrorismo integralista, che ha messo la sua firma sotto l’eccidio delle Torri Gemelle, più di quattro anni fa, non è un attacco dell’Islam all’Occidente, perché la guerra è in corso anche all’interno del mondo musulmano, a me pare una giusta precisazione.
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