Roma - Sceglie la linea del silenzio assoluto, Berlusconi, ma se potesse urlerebbe tutto il suo disappunto nei confronti dell’ex alleato Gianfranco. È fin troppo evidente che Fini lavora soltanto per farlo cadere con l’aiuto della magistratura politicizzata. Esattamente come ha sempre fatto la sinistra da quando il Cavaliere è sceso in campo. I continui distinguo su tutto, dal federalismo alla riforma dell’università passando per la legge elettorale e il fisco; i paletti sulla riforma della giustizia; l’apertura a un governo tecnico e, per ultimo, le obiezioni sulla reiterabilità sulla legge Alfano in salsa costituzionale, sono segnali fin troppo chiari. Ogni giorno che passa, agli occhi del premier, Fini si sposta sempre più all’opposizione più o meno come Di Pietro e Bersani. Con un’aggravante: nel più assoluto silenzio di tutte le forze politiche, Fini fa politica - per di più ostile - sedendo sulla poltrona più alta di Montecitorio. Altro che leale alleato che vuol solo discutere i provvedimenti da adottare per il bene del Paese. Altro che fedeltà al mandato elettorale. Baggianate, formule bizantine proprie di chi è vissuto soltanto nel Palazzo e s’è nutrito di politica politicante.
Tuttavia, in queste ore, il Cavaliere è persuaso che sia meglio tacere. Ha preso il sopravvento la cosiddetta «linea Letta». Ossia: toni bassi, nessuno scontro con il Colle, nessuna dichiarazione che possa irritare la magistratura, nessuna reazione di fronte ai continui calci negli stinchi da parte dei finiani. Anzi, soprattutto sul delicato tema della sospensione dei processi, la parola d’ordine è minimizzare. Il Cavaliere percepisce che il dibattito è troppo spostato sulla sua persona e quindi opta per il passo indietro: questa legge non m’interessa. Lascia che siano i vertici del partito a pilotare l’iter del provvedimento al Senato; ma soprattutto che sia Letta a gestire la mediazione con il Quirinale. Ecco perché il capo dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, rassicura: «Terremo conto delle osservazioni del capo dello Stato e siamo, quindi, orientati a ritornare all’automatismo della sospensione dei processi per le alte cariche dello Stato». Una limatura al testo, questa, che supererebbe i dubbi del Colle. Mentre sulla reiterabilità, il vicecapogruppo Quagliariello mostra i muscoli: «Su questo tema non siamo disponibili. Se (lo scudo) è legato alla funzione vale dopo uno, due, cinque o sei anni. Sennò diventerebbe una legge contram personam».
Se ufficialmente il messaggio da veicolare è: andiamo avanti spediti, il retropensiero - sempre più forte - è quello delle elezioni. Impossibile governare assieme a un gruppo che gioca soltanto contro. Certo, c’è il rischio che, qualora si aprisse la crisi di governo, il capo dello Stato sondi se c’è in Parlamento una maggioranza alternativa che appoggi un altro governo. La Costituzione glielo consente. «Potrebbe nascere il cosiddetto “governo del vitalizio”, ossia retto da quei parlamentari di prima legislatura, anche del Pdl, che farebbero di tutto per arrivare al 2013 pur di prendere la pensione - ragiona il pidiellino Giorgio Stracquadanio - ma siamo così sicuri che questa armata Brancaleone sia poi in grado di reggere fino alla fine? Facendo cosa poi?». Inoltre non è così scontato che il capo dello Stato si presti a un’operazione che ricorderebbe il peggior Scalfaro.
Napolitano benedirebbe un governo retto da forze che hanno perso le elezioni, con il rischio di avere la protesta di leghisti e pidiellini sotto le finestre del Quirinale? Metterebbe la firma a un governo-mostro, figlio di papà ribaltone? Probabilmente no. Ecco perché, Lodo o non Lodo, nella testa del Cavaliere si fa sempre più strada l’idea che le elezioni siano all’orizzonte.
La data c’è già: primavera del 2011. Con una certezza: il giorno dopo la crisi sarà Fini a dover gestire la creazione di un terzo polo con molti dei suoi che non ne vogliono sapere di abbandonare l’area del centrodestra.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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