Milano - Finisce nel punto in cui ha iniziato. E per dare la carica ai suoi recita il discorso della discesa in campo, la carta dei valori di Forza Italia: «Era il febbraio del 1994, non c’è da toccare una virgola». Silvio Berlusconi festeggia così «gli straordinari risultati della Sicilia», parla ai candidati sindaci milanesi riuniti al Teatro Dal Verme e dà un significato politico chiaro al voto dell’isola e alle elezioni che tra quindici giorni seguiranno in tutta Italia. «Un messaggio inequivoco, un’intimazione di fine al governo Prodi» dice l’ex premier e racconta di non riuscire più a trovare contestatori in giro per le strade. Scherza ma non troppo: «Ne sento quasi la mancanza. Dove sono finiti gli italiani che hanno votato Prodi? Un tempo mi facevano gestacci con le mani, adesso non ne incontro nemmeno uno...».
I numeri che arrivano da Palermo, da Trapani, da Ragusa, così positivi per la Cdl, lo convincono ancora di più che alle politiche siano stati compiuti brogli: «Mi sembrano risultati persino troppo positivi per essere veri. La Sicilia si conferma la Lombardia del Sud. A questo punto bisogna uguagliarla e anche superarla». È la gente che glielo chiede, spiega lui: «È un momento sinistro per il nostro Paese. Questi signori sono al governo da un anno, non sanno governare ma sanno come si gestisce il potere». Un esempio per tutti è il Ponte sullo Stretto di Messina: «Noi abbiamo impiegato cinque anni a costruire un progetto che loro hanno distrutto in cinque minuti. È stato il mio dolore più grande».
Parla delle vicissitudini giudiziarie che continuano, di sabato scorso, giorno della duemiladuecentotrentacinquesima udienza contro di lui, degli «altri due procedimenti ridicoli che hanno imbastito». Rivela i conti stratoferici dei suoi avvocati: «Per difendermi dai giudici ho speso 280 miliardi delle vecchie lire. Ma il danno maggiore, che nessuno ripagherà, è il fango che hanno gettato su di me e su di voi che mi avete eletto». Ottiene una standing ovation, tutti in piedi ad applaudirlo, quando rassicura gli azzurri sul futuro: «Il mio comportamento da imprenditore è stato di assoluta correttezza. Non dovete avere alcuna paura perché alla fine avranno torto e vinceremo noi».
Ai candidati fa una lezione di politica (e di campagna elettorale) che spazia dal Partito unico del centrodestra al no al matrimonio gay, alla difesa della famiglia e del Vaticano, senza mettere in discussione i principi liberali e della laicità che erano già nel suo discorso del ’94: libertà per tutti ma anche valori cristiani e libertà di culto. Torna sul Family day per approfondire il concetto: «La Chiesa cattolica è sotto attacco, c’è chi vorrebbe impedire ai vescovi di parlare se non nei luoghi destinati al culto. Noi diciamo no a questa Chiesa del silenzio che era quella che imponeva l’Unione sovietica. Da laici abbiamo chiarissima la divisione dei ruoli tra il Vaticano e lo Stato, ma non intendiamo limitare in alcun modo la libertà dei vescovi». Nessuna critica a chi sceglie di convivere, siano coppie eterosessuali o anche gay. E però, aggiunge, è cosa diversa dalla famiglia: «I diritti di chi vive insieme, anche delle coppie dello stesso stesso, possono essere ancora più tutelati con leggi normali. Ma il matrimonio no, è una cosa diversa, come si legge nella Costituzione. Diciamo no alle caricature del matrimonio, a matrimoni di serie B e anche C».
La casa comune del Polo per lui non è tramontata, anche se al momento non è realistica. Ricorda che sono stati gli alleati a impedirgli di attuare parti del programma che aveva presentato agli elettori: «Per questo io sogno il Partito unico e la federazione dei partiti, in cui si decide a maggioranza. Oggi con l’Udc e la Lega che vogliono andare per conto proprio, sarebbe assurdo fare il partito unitario solo con An e Dc, ma lo tengo come sogno nel cuore».
L’attualità è Forza Italia e il programma per le amministrative di cui propone un ripasso. I temi forti sono il no all’immigrazione selvaggia e alle tasse. Tra i punti il bonus scolastico per tutte le famiglie, l’abolizione dell’Ici sulla prima casa e delle addizionali Irpef («il modello è il buongoverno di Milano»), secondo «la legge naturale per cui è giusto pagare le tasse se è una richiesta onesta, cioè fino a un terzo di quel che si è guadagnato». Oltre quel tetto, ripete Berlusconi, è comprensibile che ci si ingegni per non pagare le imposte. Propone la sua regola: «Nessuno, privato o impresa, può essere chiamato a versare più del trentatré per cento dei guadagni».
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