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Bersani perde anche in casa: sconfitto il suo candidato

Cacciatore battuto da Dosi: ormai nel partito prevale l'ala cattolica. E va male anche Mazzoli, spinto dall'asse Marino-Vendola

Bersani perde anche in casa:  sconfitto il suo candidato

Domanda astratta: se il leader di un partito non è in grado di imporre la sua linea neppure in casa propria, che senso ha tenerselo alla guida nazionale del partito medesimo? Caso concreto: il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, è stato sconfessato dai suoi stessi elettori nella sua stessa città, Piacenza, dove a maggio si voterà per il rinnovo del Consiglio comunale. Una batosta coi fiocchi, di neve e no.

Nelle primarie per la scelta del candidato sindaco svoltesi domenica scorsa (era la prima volta che si tenevano), l’uomo appoggiato da Bersani, Francesco Cacciatore, vicesindaco dell’amministrazione uscente di centrosinistra ed erede diretto della filiera comunista locale (ha persino sposato la figlia di uno dei fondatori del Pci piacentino), è stato sonoramente battuto da Paolo Dosi, assessore alla Cultura della medesima amministrazione, proveniente dalla filiera cattolica. Dosi ha preso il 40,3% dei voti mentre Cacciatore s’è dovuto accontentare del 34,5%.

Ovviamente Bersani non poteva cimentarsi in prima persona a favore del suo candidato - sarebbe stato un caso di favoritismo, appunto, e avrebbe scatenato un putiferio - ma ha schierato per lui l’intera macchina organizzativa del Partito democratico, guidata dal segretario Vittorio Silva, oltre alla Cgil, alle organizzazioni collaterali, alle numerose coop locali. Ciò nonostante il suo uomo è stato sconfitto dall’outsider piddino di estrazione cattolica. Insomma a Piacenza, nonostante l’impegno dell’ex Pci a favore di Peppone, ha vinto don Camillo.

Bersani cerca adesso di far buon viso a cattivo gioco. Nel suo commento esalta la «grande partecipazione popolare» e, in particolare si rammarica che, fra i sei candidati alle primarie, «non ci sia stata nemmeno una donna», come se la circostanza, oltre ad apparire irrilevante a urne chiuse, non fosse nota da almeno tre mesi. Chiacchiere in libertà per coprire la disfatta personale.

In queste primarie è stato «asfaltato» anche Gianni D’Amo, che ha convinto solo il 7,12% degli elettori e che era il candidato sostenuto dal professor Giacomo Vaciago, famoso economista dell’Università Cattolica, dallo scrittore Piergiorgio Bellocchio, fondatore dei Quaderni piacentini e fratello del regista Marco, e dallo scultore Giorgio Milani. D’Amo, per rendere l’idea, è considerato il Boeri di Piacenza. Un mesto radical-chic.

Nelle cenere è finito pure un docente di economia della stessa Cattolica, Marco Mazzoli, supportato dalla corrente che fa capo al senatore Ignazio Marino e dal Sel di Nichi Vendola: appena il 3% dei voti. È stato il Malabrocca della situazione, essendo, e di gran lunga, l’ultimo arrivato. In compenso ha confermato che l’Università Cattolica, almeno a Piacenza (dove hanno sede le facoltà di agraria, di giurisprudenza e di economica e commercio), è un incubatoio della sinistra.

Siccome il vincitore delle primarie del Pd, Dosi, è un personaggio modesto (non è certo un Matteo Renzi) che ha tenuto un assessorato marginale, come può aver umiliato il fortissimo uomo della struttura Pci-Pds-Pd sostenuto da Bersani e che per di più era il vicesindaco uscente? È semplice. Il Matteo Renzi del centrosinistra di Piacenza è il sindaco uscente, Roberto Reggi, che però dopo due mandati consecutivi non poteva ricandidarsi. Anche Reggi viene dalla filiera cattolica. La prima vittoria la ottenne anche grazie al discreto appoggio del vescovo di allora, Luciano Monari, oggi a capo della diocesi di Brescia.

Reggi è stato un sindaco cattolico che non ha mai lasciato alcuno spazio, nella sua amministrazione, all’estrema sinistra e che spesso ha mandato a cuccia gli esponenti storici diessini e piddini. È in grado di papparsi l’intero centrosinistra. Come ha dimostrato in queste elezioni.

Tant’è che il presidente della Regione Emilia Romagna, il bersaniano Vasco Errani, s’è precipitato a Piacenza per dire che Reggi «è una risorsa per il partito». Facendo imbufalire lo stesso Reggi, il quale non si considera affatto «una risorsa» bensì un leader che, trovandosi ora a spasso e non vedendo alle porte elezioni politiche anticipate, pretende subito un incarico importante e risarcitorio.

«In caso contrario, ci saranno», giurano i suoi, «altri dieci, cento, mille Dosi».

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