Milano - «Non sono capace di essere serio, tanto meno serioso. Scelgo l’ironia, insceno una danza sull’abisso, un gorgheggio sul Titanic». Ci tiene alla premessa, Edmondo Berselli: forse per addolcire la spietatezza della diagnosi su quella che è, non solo in Italia, la più drammatica delle sconfitte elettorali della sinistra degli ultimi decenni. Ma l’indulgenza resta a zero: caustico e tagliente, il politologo e editorialista di Repubblica, fino a pochi giorni fa direttore de Il Mulino, manda in libreria per Mondadori Sinistrati - Storia sentimentale di una catastrofe politica, dove quel catastrofe diffonde nell’area di appartenenza dell’autore un sapore fantozzianamente autolesionistico. L’unica concessione alla speranza viene dallo sguardo a ciò che, probabilmente, sta succedendo in America: «Se vincesse Obama, come si dice», si concede Berselli, «vorrebbe dire che lì esiste una società che si sposta, che fa scelte diverse rispetto a una situazione che ritiene non buona. È il segno di un’agilità e di una prontezza che mancano in Italia, dove due schieramenti si confrontano disprezzandosi e senza volersi capire». Per il resto, buio. E un finale malinconico.
Dunque, Berselli: la catastrofe politica di aprile è stata una svista tattica o una sconfitta culturale?
«Il punto centrale è che la sinistra, me compreso, ha votato inseguendo l’illusione della rimonta, simboleggiata dal possiamo farcela, dal yes, we can, senza sapere bene che cosa stavamo facendo. Prima, nell’Ulivo c’era un’idea di fondo: quella del parroco, del Mortadella che, con la sua parlata bofonchiata, tenendo insieme un po’ di laici, di cattolici e comunistacci, affermava la capacità di modernizzare l’Italia in modo meno massimalista di Berlusconi. Con l’avvento di Veltroni si decide che è un progetto vecchio e che bisogna correre da soli. Sappiamo com’è andata a finire: un’illusione che nel libro sintetizzo con l’espressione I care, we can, they win».
Lei propende per un errore di prospettiva...
«Si poteva buttare un’esperienza politica durata 13 anni, chiunque l’avesse gestita, Prodi o Rutelli, sulla base di una scommessa? Io sono convinto che le scommesse siano apprezzabili solo quando si vince. Quando si perde sono azzardi. Se uno guarda le macerie rimaste sul terreno non può che concludere che l’operazione è riuscita, ma il paziente è morto».
Il Pd ha fatto la campagna sulla bella politica...
«Oggi il Pd è una somma di culture in cui prevale la sfera dei diritti, il sostegno alle pari opportunità, tutto ciò che è contro le discriminazioni. Tutti ideali nobili. Ma sono convinto, per dirla con Hirschman, che non sia più il tempo delle passioni, ma il tempo degli interessi».
Invece i dirigenti della sinistra palesano un lieve ma letale distacco dal Paese reale.
«Dentro al Pd sono confluiti quel pezzo di Dc che aveva un legame forte con la base cattolica e le parrocchie, e una parte del Pci che era una forza fatta di militanti, la base dei sindacati, gente reale. L’azzardo da roulette è stato giocare la partita con Berlusconi sui valori, le passioni e gli ideali. Mentre lui la giocava sui soldi».
Un altro vizio capitale è il complesso di superiorità della sinistra. Nel libro a un certo punto lei dice che si dovrebbe cominciare a dire la verità, ma riesce difficile perché la sinistra crede di essere la verità e quindi non sente il bisogno di dirla...
«Quando al Circo Massimo Veltroni dice che il Paese reale è migliore di quelli che lo governano, non so perché lo dice e ancor meno capisco che cosa voglia dire. A me piace tutto ciò che è popolare, come il cinema e il calcio, e sono convinto che difficilmente il popolo sbagli. Invece la sinistra pensa non al popolo, ma ai miti popolari. Cioè a Benigni a Baricco, ai totem culturali delle professoresse democratiche».
Anche Veltroni ama il calcio, il cinema, la musica leggera e quella jazz...
«Però lo fa in modo paternalista. Cioè: lo sdogano io perciò è buono. Sono buoni Benigni, la Divina commedia, il liceo classico, Alberto Sordi. Invece di stare in mezzo e condividere, compie un’operazione strumentale. Bisogna dire la verità, ragionare con la propria testa. Una cosa non è buona perché è nostra, cioè di sinistra, ma è buona perché è buona».
Le elenco alcuni titoli di libri di autori di sinistra sulla crisi della sinistra. «Perché siamo antipatici?». «Eutanasia della sinistra». «Sinistrati». «Sinistra senza sinistra»...
«So dire solo questo. La mattina quando vado al parco con il mio cane a Modena e vedo che è sporco, mi dico che non va bene. E va ancora meno bene dire: sì, il parco è sporco, ma noi siamo per la società multiculturale, multietnica e benevolente. No. Il parco dev’essere pulito. Fine. Non ci sono alternative. È la cultura del ma che va abolita».
Una vignetta di Altan descrive lo stato d’animo di una parte del Paese. Dice l’operaio: ma io sono di sinistra. E l’altro: piantala, che ci stanno guardando tutti...
«Altan è un talento irripetibile e coglie nell’aria questo senso di minoranza della sinistra chiusa in se stessa. Per me nessuna sinistra ha senso se si autocondanna a restare minoranza. Detesto quelli che sanno individuare sempre nuovi problemi. Mi piacciono le soluzioni».
D’Alema dice che la sinistra rischia di restare «una minoranza strutturale». Una minoranza estrinseca, ma anche intrinseca. È così?
«In questo momento rischia di essere minoranza nel sistema politico e anche strutturalmente perché ha una cultura subalterna. Non sono interessato a una esperienza politica che non voglia guadagnare la maggioranza e quindi voglio soluzioni sull’economia, sulla scuola, sul lavoro, sulla televisione, sugli immigrati, sulla sicurezza. Cioè un programma di governo. E una cultura».
Dov’è finita l’egemonia culturale della sinistra?
«C’era un’egemonia dei colti sulla minoranza, ma la maggioranza votava Dc. Io penso che un’egemonia di minoranza non serva a niente».
La fine della sua analisi è malinconica, con poca speranza...
«Il finale malinconico è quello di D’Alema: “La sinistra è un male. Solo l’esistenza della destra lo rende sopportabile”. Per avere un’idea buona per il futuro ci vuole una cultura spregiudicata, cioè senza pregiudizi. Altrimenti continuiamo a raccontarci la solita favola».
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