da Roma
Da quando è seduto sullo scranno della Camera dei deputati «non può sentirsi liberamente comunista». E per il futuro sa per certo di «non essere uomo per tutte le stagioni»: darà un contributo alla Cosa rossa, ma il «ruolo del protagonista» non gli apparterrà. «Cè tempo e tempo, e il mio non è più il tempo della direzione», annuncia.
Chissà. Fausto Bertinotti per ora sta a proprio agio nel presente, ancor di più se è quello della Liberafesta di Rifondazione, dove poter far capire al suo popolo che aria tira, che tempo farà sul governo. «Ah, non cè la crisi? È una buona notizia che apprendo da lei», scherza con lintervistatore Giovanni Minoli. Non sembra neppure tanto uno scherzo, considerato che della finanziaria non si dichiara «per niente orgoglioso», che la partita sul welfare resta «aperta», che la manifestazione del 20 ottobre sarà un «momento di democrazia», con tanto di ministri in piazza. Non cambia idea, Bertinotti: la sinistra che sceglie di stare al governo assume la condizione imprescindibile di «lotta e governo, altrimenti smarrisce il legame con il suo popolo».
Ma è su questo legame che la politica deve fare i conti, e quella istituzionale mille volte di più. Cè lantipolitica alle porte, con le sue facce odiose, ruvidi o soltanto ipocriti. Certo, Bossi utilizza «parole che possono generare odio, perché la guerra di liberazione è stata una sola, quella che ha cacciato i fascisti». Ma cè anche il mite Piero Fassino che presenta come se nulla fosse un ventaglio di proposte di riduzione dei costi della politica. Bertinotti, che non si sente «assolutamente parte della casta», non gliela fa passare liscia. Sì, la drastica riduzione dei parlamentari serve come acqua nel deserto e andrebbe fatta «entro lanno», dice. Ma aggiunge: «Io faccio il presidente della Camera, Fassino è un parlamentare e segretario di un partito, non ho visto proposte di legge depositate da Fassino alla Camera». Uno sferzante commento che coglie nel segno, e la reazione rabbiosa di Fassino lo dimostra: «Non credo che il presidente Bertinotti può insegnare a me come fare il parlamentare: mi sembra una polemica pretestuosa, perché alla vigilia della finanziaria ho indicato dieci possibilità di riduzione dei costi della politica, cinque su dieci le ho ritrovate con piacere nella finanziaria, quindi non cè bisogno che io presenti un disegno di legge. Sulle cinque rimanenti lo farò».
Fulminazioni sulla strada di Damasco. Dopo i «vaffa» di Grillo e le polemiche delle scorse settimane legate a uno stipendio da parlamentare (aumentato) che evidentemente Fassino non ha sotto controllo. Bertinotti però sembra averne le tasche piene di certa ipocrita demagogia, a doppio senso. Così si definisce «a disagio» e trova «inaudito» che la Rai, il servizio pubblico da sempre succube dei partiti, «faccia di Mastella un capro espiatorio» e metta in discussione «non il politico, ma la persona e la sua famiglia: se non cè rispetto la politica diventa barbarie e contro la barbarie io mi ribello». E critica apertamente le proposte di Grillo sulla ineleggibilità dei condannati, in quanto sono i partiti a doversi «autoriformare», è il partito che «si assume la responsabilità di candidare qualcuno: io sono per misure di moralità assoluta, ma fatte con la politica, non per legge. Per esempio chi è condannato per un blocco di una fabbrica, magari per difendere i lavoratori da un licenziamento, pensate che non possa essere eletto parlamentare? Io penso di sì», dice il numero uno di Montecitorio, suscitando il lungo applauso del popolo rifondatore.
Altrettante perplessità Bertinotti nutre per il divieto del doppio mandato, perché se questa regola fosse stata in vigore, «il Parlamento avrebbe perso gente come Togliatti, De Gasperi, Berlinguer...». La protesta di Grillo non va demonizzata: «È una piazza prepolitica e apolitica, molte volte le piazze si riempiono e i contenuti ancora non sono decifrabili: dipende da che piega prendono». La politica deve dare risposte, soprattutto «quella di sinistra», che invece latita. E se «il popolare Veltroni supplisce a un Pd che nasce senza impianto programmatico», «sbaglia ancora una volta Fassino» a fare del rapporto privilegiato con il supermanager Fiat Marchionne una specie di nuova via, una versione rinnovata della «vecchia questione del patto tra i produttori».
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