Berto, Plebe, Prezzolini e quei bestseller che non piacevano all'Italia sessantottarda

I loro libri su golpe, reazione e conservatorismo sono ancora attualissimi

Berto, Plebe, Prezzolini e quei bestseller che non piacevano all'Italia sessantottarda

Non basta il coraggio per scherzare sulle tragedie. È necessario anche essere dotati di un sarcasmo all'altezza della situazione e dunque feroce. Qualità evidenti nell'articolo di Fruttero & Lucentini, pubblicato in queste pagine, che ironizza sul timore del golpe, negli anni '70 un timore fondato e non solo in Italia.

Dal possibile colpo di Stato, partiva Giuseppe Berto, prima in una serie di articoli sul Resto del Carlino e poi nel saggio Modesta proposta per prevenire (Rizzoli) pubblicato nel 1971. Come suggerisce il titolo swiftiano, l'autore formula con ironia la sua «modesta proposta» per «prevenire» un golpe «nero» inevitabile reazione alla contestazione «rossa» esplosa nel 1968. Le premesse erano queste: «In parole scoperte io credo che questo sistema cristiano-liberal-capitalistico nel quale bene o male viviamo, nonostante la sua mirabile inefficienza e insufficienza, sia ancora da preferirsi, per quanto riguarda la comodità d'essere liberi, e potrei anche dire la comodità d'essere vivi, ai sistemi in uso nei Paesi detti di democrazia popolare». Detto questo, Berto confuta i miti del Sessantotto ma neppure fa sconti alla nostra comatosa democrazia. L'analisi, condotta con spiccato umorismo, non risparmia nessuno. Un esempio per tutti, l'intellettuale «di riferimento» Herbert Marcuse: «Egli, tanto premuroso nel denunciare l'annullamento della volontà e della libertà individuale nella società consumistica, non si preoccupa dell'ancor più radicale annullamento della volontà e libertà individuale necessario per instaurare il comunismo». Stroncata anche l'illusione che l'Unione Sovietica sia la cattiva realizzazione di una gloriosa utopia: «Stalin non può essere giudicato una degenerazione del comunismo, perché Stalin è il comunismo». Berto però sa essere cattivo anche con il sistema politico italiano. Non gli sfugge la degenerazione della democrazia in partitocrazia parassitaria, clientelare e foraggiata dall'estero. Sottolinea la crescita esponenziale di enti, aziende, ministeri e istituzioni inutili tra le quali non esita a indicare le Regioni. Previsione di Berto: esplosione della spesa pubblica pagata, in forma di tasse, dal ceto medio. Soluzione: «L'unico modo per affrontare realisticamente il problema di spese più giuste è quello di eliminare prima le spese sbagliate». La famosa spending review... Altro punto dolente, a cui è dedicato un intero capitolo, è l'inarrestabile politicizzazione della magistratura, frutto bacato della sovversione «dall'interno» teorizzata dal Movimento. Il cuore del libro è l'esortazione alla borghesia affinché recuperi il suo ruolo naturale: innovare senza stravolgere la tradizione. Invece la borghesia «prepara, alimenta, produce le forze che si propongono di distruggerla». Risultato della polemica di Berto. L'autore fu considerato un fascista dai comunisti, un comunista dai fascisti e un traditore dai borghesi. Insomma, fu emarginato (non dai lettori, quarantamila) per eccesso di libero pensiero. Rileggere oggi Modesta proposta per prevenire prova che Berto aveva capito molto, quasi tutto, con decenni d'anticipo.

D'altronde non c'è da stupirsi. L'emarginazione è la sorte che in Italia tocca a chi canta fuori dal coro. Quindi, quando qualche settimana fa è morto Armando Plebe, si sono letti coccodrilli striminziti. Forse è malafede. Forse è ignoranza. Fatto sta che nello stesso 1971 della Modesta proposta per prevenire, Plebe pubblicava Filosofia della reazione (Rusconi). Un pamphlet da 100mila copie, seguito immediatamente da Quel che non ha capito Carlo Marx (Rusconi, stampato nel dicembre 1971 e uscito all'inizio del 1972). Altre 100mila copie. Oggi se un saggio tocca le 3mila scatta il carnevale di Rio nei corridoi delle case editrici. Plebe sbriciola il Sessantotto, in sintonia con Berto (lo scrittore veneto scatenerà un pandemonio in un convegno della destra, organizzato da Plebe, con un discorso in cui accomunava fascismo e antifascismo al fine di accantonare entrambi). Plebe mette sul lettino dello psicanalista (anche in questo è vicino a Berto) la contestazione, che si rivela una forma di nevrosi. Convinto di essere represso dalla società, il rivoluzionario è in preda all'odio verso il presente e alla noia verso la propria condizione. È un odio cieco, perché distrugge per il gusto di distruggere. Il culto del progresso nasconde una pulsione di morte che non si arresta di fronte a nulla: «Nella loro idea di sottomettere tutto al fine rivoluzionario è infatti insita la convinzione che i fatti del singolo individuo siano cosa irrilevante, quantité négligeable al confronto delle direzioni e delle tendenze della storia». Questo porta al sacrificio della vita altrui e alla condanna delle esigenze più umane etichettate come «borghesi». La censura è connaturata a questa mentalità. La conoscenza rivelerebbe le contraddizioni del Movimento, che richiede invece un esercito di idioti utili e indottrinati. Plebe argomenta da filosofo, senza mai essere pedante, anche quando si diverte a mostrare l'inconsistenza di pensatori come Lukacs e Marcuse o di non pensatori come Mao, un mostro tanto ridicolo quanto pericoloso. I cattivi maestri italiani, invece, sono soltanto mediocri con una sola possibilità di far carriera: cancellare l'eccellenza ovunque la trovino, ad esempio nell'editoria e nell'università.

Nel gennaio del 1972, in coincidenza con il secondo pamphlet di Plebe, esce anche il Manifesto dei conservatori (Rusconi) di Giuseppe Prezzolini. Ed eccoci al quarto libro in pochi mesi che mette sulla graticola i progressisti, i rivoluzionari della domenica, i fanfaroni di sinistra, i marxisti da salotto d'avorio. Secondo Prezzolini, il vero conservatore «non è contrario alle novità perché nuove» ma «non scambia l'ignoranza degli innovatori per novità». Il Progresso è «un errore logico» che vorrebbe superare «gli elementi naturali della società». Vale a dire: «la proprietà privata, la famiglia, la patria e la religione». Gli uomini «non sono uguali» e ogni progetto «che parta da principii differenti porta scompensi colmati solo da ipocrisie». Tra gli scompensi c'è l'eccessiva presenza dello Stato, che per il conservatore deve essere forte ma anche minimo: «dovrebbe limitarsi a provvedere, in modo tecnico perfetto, la sicurezza dell'indipendenza nazionale, le comunicazioni rapide e a buon mercato, l'igiene necessaria alla salute della popolazione, la scuola che sa scegliere i migliori, una vecchiaia non questuante, la cura delle malattie gratuita; e soprattutto dovrebbe offrire un corpo di giudici imparziali, un codice di leggi chiare, una esecuzione della giustizia rapida e poco costosa per tutti ed una stabilità che permetta ai cittadini di provvedere al futuro con una certa sicurezza». Nel libro, non c'è una riga che non sia un pugno nello stomaco alla mentalità dei contestatori ai quali tuttavia Prezzolini dedica un solo pensiero. Questo: «Il Vero Conservatore non reputa che per essere moderni occorra scrivere in modo da non essere intesi; che per protestare contro le ingiustizie si debbano portare i capelli lunghi e la biancheria sporca; che per provare l'uguaglianza dei sessi si invertano i sessi; che per mostrare l'apertura della mente si adottino i costumi di altri popoli; che per confermare la propria religione si accetti la religione degli altri».

In meno di un anno, tra il 1971 e il 1972, uscirono in Italia quattro libri di successo che sono una evidente reazione al Sessantotto e ai suoi miti.

Incluso quello che la cultura è di sinistra o non è. Nessuno di questi saggi, tranne il Manifesto dei conservatori, ripubblicato nel 2014 a cura di Gennaro Sangiuliano per le Edizioni di Storia e Letteratura, si trova oggi in libreria.

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