BIENNALE O la rinnoviamo o la rottamiamo

Tante vecchie glorie e pochi artisti nuovi. Offensiva l’indifferenza verso l’Italia

BIENNALE O la rinnoviamo o la rottamiamo

C’è chi dice addirittura: rottamiamola. C’è chi, come Vittorio Sgarbi, aggiunge senza mezzi termini: «Mandiamo a casa il direttore Robert Storr. Subito». Altri, più diplomaticamente: bisogna cambiare, ripensare, riprogettare. Toni severi, con la Biennale dell’arte che il 10 giugno celebrerà a Venezia il 52º compleanno. Come una signora ex-bella che continua ad annaspare nel jet-set ma ha il lifting che non tiene. Una gloriosa istituzione che, come la città che l’ha creata, ha ormai un grande futuro dietro le spalle.
Che la Biennale scateni le polemiche, è tradizione consolidata. A differenza dei casi clamorosi di anni ormai lontani, però, oggi la polemica non è su ciò che la Biennale offre alla platea internazionale, bensì su ciò che non c’è, non sulle presenze ma sulle assenze, non sulle scommesse troppo ardite ma sulla pigrizia intellettuale, non sul suo “futurismo” ma sul suo “passatismo”. Achille Bonito Oliva, il creatore della Transavanguardia, direttore dell’edizione numero 43, è drastico: «La Biennale manca al suo compito istituzionale che è far emergere l’arte giovane, i nomi nuovi».
Le assenze. Il primo aspetto che balza agli occhi è l’esiguo numero degli italiani invitati dal direttore americano: sei su un centinaio di nomi provenienti da tutto il mondo, di cui un buon quarto statunitensi. L’arte italiana alla Biennale è diventata «the sound of silence». È dunque possibile che il panorama artistico in Italia registri un encefalogramma piatto? Philippe Daverio si indigna: «Dichiaro con forza che mai come oggi l’arte italiana è viva e potente. Ed è arte, quella, non le baracche che ci rifila la Biennale».
Ma allora perché questa disattenzione, anzi «indifferenza» come la definisce Bonito Oliva? Le ragioni della nostra debolezza in campo artistico (debolezza, si badi, strutturale non qualitativa) vanno ricercate nella parallela debolezza dell’intero sistema dell’arte in Italia: ministero, gallerie, musei. Secondo Francesco Purini, curatore del padiglione italiano alla Biennale di Architettura del 2006, il sistema italiano non sostiene i suoi artisti che vanno allo sbaraglio contro la forte concorrenza dell’asse Londra-New York. È dello stesso parere Gabriella Belli, direttrice del Mart di Trento e Rovereto: «Lo Stato abbandona i nostri artisti che non riescono a ottenere visibilità in campo internazionale. Risultato? Nel 2006 la Tate Modern di Londra ha fatto ben 87 nuove acquisizioni di artisti giovani di tutto il mondo. Neppure un italiano». Eppure il panorama dell’arte nuova in Italia - lo sostiene anche lei - è ricco, variegato e vivace.
Perché allora l’indifferenza? «Quando nacque il MoMa di New York nel 1929 - incalza Daverio - tra i primi acquisti ci furono i quadri di Mario Mafai. Il fatto è che allora lo Stato italiano credeva nel valore dell’arte anche come forte veicolo politico e questa convinzione, che noi abbiamo abbandonata perché, ohibò, puzzava di fascismo, è stata ripresa pari pari e con forza ancora maggiore dagli Stati Uniti. Loro sostengono e impongono i loro artisti, noi ci poniamo nei loro confronti in atteggiamento di Paese colonizzato. Abbiamo creato la Biennale, oggi ci resta la soddisfazione di pagare i giardinieri».
«È ben vero che la Biennale è internazionale - aggiunge lo storico dell’architettura Giorgio Muratore - ma non è necessario, in nome di questo internazionalismo, svendersi ad alcuni grossi centri di potere». «Che significa poi - secondo Alessandro Riva, l’animatore della piccola “contro-Biennale” di Italian Factory nel 2005 - schiacciare le identità dentro una sorta di dittatura culturale globale. Con il risultato che alla Biennale tutto si trova fuorché le nuove tendenze. È molto più interessante fare un giro alle grandi mostre mercato, da Art Basel a Documenta».
Ma attenzione al mercato. «È come la Borsa - sostiene Giorgio Muratore -: sulle sue indicazioni spesso si costruiscono fortune personali di artisti che sui tempi lunghi rivelano la loro mediocrità». Ecco perché il compito di talent scout della Biennale diventa un insostituibile e sano antidoto alle storture e alle speculazioni del mercato, «vero killer dell’arte» secondo Pablo Echaurren. «Rilanciamola dunque - propone Bonito Oliva - anzitutto chiamando direttori che siano veri critici d’arte e non manager che si limitano a un compito di pura manutenzione. Il marketing culturale non basta. Reintroduciamo le mostre come “Aperto 80” che puntavano ai giovani».
Robert Storr non esce benissimo da questo poligono di tiro, anche se la direttrice del Mart lo difende: «Storr ci presenterà senza dubbio una bellissima mostra. Il guaio è che non abbiamo bisogno di una mostra. Ai direttori dei musei non interessa un’esposizione di grossi calibri come, per esempio, Louise Bourgeois o Sol LeWitt o lo stesso Penone. Li conosciamo benissimo da tempo. A noi servono suggerimenti, indicazioni. Vogliamo vedere emergere il meglio, o paradossalmente il peggio, dell’arte nuova. Presenza che deve essere preponderante e non residuale».
L’Italia può consolarsi con il suo Padiglione, cancellato nella scorsa edizione, e oggi riproposto: mille metri quadrati alle Tese delle Vergini dell’Arsenale. «E mi sembra un po’ offensivo - commenta ancora Gabriella Belli - che il Padiglione italiano sia stato sfrattato dalla sua sede storica e centrale dei Giardini. Dopotutto l’Italia è il Paese che ospita la Biennale e il ministero dei Beni Culturali vi investe enormi risorse». Nulla da ridire, ovviamente, sulla qualità dei due artisti scelti dalla direttrice Ida Gianelli, Giuseppe Penone e Francesco Vezzoli. Solo che il primo - classe 1947 - tutto è fuor che un artista “giovane” e il secondo è praticamente un cavallo che corre per le scuderie americane.
Rottamarla forse no, ma è certo che la Biennale va rinnovata profondamente, cominciando dallo statuto che deve indicare con chiarezza la sua funzione di ricerca dell’inedito. Ma dietro la Biennale deve muoversi tutto il sistema dell’arte italiana, a cominciare dai vertici ministeriali. Perché la prossima edizione potrebbe trovarsi ad affrontare nuove concorrenze, anche in Italia.

Annuncia Vittorio Sgarbi: «Fra due anni nascerà a Milano “Babele”, una grande manifestazione nella quale sarà rappresentata tutta la nostra creatività, dall’arte alla moda al design. Parleranno tutti i nuovi linguaggi italiani».

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