Biennale di Venezia: l’isola felice dei critici snob galleggia su un mare di Bellini

Feste, alcol e ore piccole. Per gli imbucati di successo l’Esposizione non ha niente di artistico, ma è una vetrina per sentirsi arrivati. Si lotta per le tartine e il caviale. Le opere? Se sono grosse allora se ne deve scrivere

Biennale di Venezia: l’isola felice  
dei critici snob galleggia su un mare di Bellini

Venezia - Fra i giornalisti che affolleranno «Fare mondi», la 53° Biennale dell’arte, Jeffrey Atman non ci sarà. È rimasto a Benares, che adesso si chiama Varanasi: indossa un dhoti bianco, si è rasato i capelli, fa il bagno nel Gange, è flippato insomma. Era flippato anche alla sua ultima Biennale, due anni fa: troppo alcol, troppa cocaina, troppo sesso. Si sentiva immortale, poi si è sentito solo, poi è volato in India e il resto l’ho già scritto... Jeffrey, detto Jeff, è un personaggio di fantasia, il protagonista del nuovo romanzo di Geoff Dyer, l’autore di Natura morta con custodia di sax. Si intitola. Amore a Venezia. Morte a Varanasi (Einaudi, pagg. 320, euro 18,50). Pur consigliandolo, non lo recensiremo, e Dyer ci scuserà, ma lo useremo invece come un breviario per la Biennale che apre i battenti, una specie di «istruzioni per l’uso» che, come tali, sono eterne. Nel senso che valgono per lo ieri come per l’oggi e per il domani, e nella loro verosimiglianza sono più vere del vero, poiché ogni opera lì esposta è una non opera, potrebbe esserci come potrebbe non esserci, è presente ma anche assente, sta nel Padiglione Statunitense, ma potrebbe stare nel Padiglione Indiano...

Ma innanzi tutto, come definire una Biennale? Il nostro Jeff parlerebbe di una società gerarchica, e avrebbe ragione. Alla base c’è il pubblico che però nei giorni dell’inaugurazione per la stampa non ha accesso a un bel niente e brilla perciò per la sua assenza. «Al vertice ci sono gli artisti e i curatori venuti dalle grandi istituzioni e dalle famose gallerie commerciali, seguiti nell’ordine da collezionisti, giornalisti e critici, e da un esercito di imbucati». Si tratta di un sistema gerarchico flessibile: i giornalisti, per esempio, non sono altro che «imbucati di successo, imbucati con gli accrediti», così come gli artisti sono «imbucati armati di pennello o macchina fotografica, e i curatori imbucati armati di potere». Il sistema funziona insomma nel senso che mette a disposizione una vasta gamma di pass, ma solo i più prestigiosi garantiscono accesso ovunque, un po’ come nella Fattoria degli animali di Orwell, dove tutti sono eguali, ci mancherebbe, ma alcuni sono più eguali degli altri... In cima, c’è «lo strato dei super-vip, dove il detenere un qualsivoglia pass che non sia quello dato dalla ricchezza o dalla fama, ti taglia fuori a priori».

La Biennale è il paradiso dei giornalisti. Vieni spedito in quella che è considerata la città più bella del mondo, sei in nota spese, la puoi falsificare come vuoi perché quasi sempre riesci a mangiare gratis, hai l’idea di fare parte degli happy few che parlano solo di arte e di valori... Certo, il caldo veneziano di giugno è soffocante, ma, come direbbe uno dei membri di questo clan dei «pochi felici», qualche migliaio in realtà, lo si può fronteggiare facendo ricorso al più interessante degli artisti che in ogni Biennale la fa sempre da padrone: il Bellini! Fiumi di Bellini gelato, torrenti di prosecco e succo di pesca, che accompagnano ogni installazione, ogni video, ogni festa, ogni party, ogni cocktail... Insomma, per dirla con Jeff, «vedi arte a tonnellate, vai alle feste, scoli fiumi d’alcol, spari cazzate per ore e ore e torni con i postumi di una sbronza cumulativa, il fegato a pezzi, il taccuino quasi privo di appunti, e un accenno di Herpes. Un’esperienza definitiva, immutabile».

Noi italiani, specializzati nell’auto-denigrazione, guardiamo a Venezia con occhio critico. Bella sì, ma è cara, è sporca, è calda, è morta, è triste, è persino puzzolente. Ci siamo andati in viaggio di nozze, poi è finita lì. La trattiamo come un lontano parente decaduto e decadente, un po’ rincoglionito... Ma mettetevi nei panni di un australiano, un canadese, un asiatico qualsiasi oppure un africano.... Per loro è un Truman show. «Da centinaia di anni, Venezia si sveglia fingendo di essere una città vera, anche se lo sanno tutti che esiste solo per i turisti». La novità è che i suoi veri residenti sono «le orde di giapponesi con le macchine fotografiche a tracolla, gli americani in luna di miele, i turisti che viaggiano con lo zaino e non tirano fuori un euro, i biennalisti affetti dai postumi delle sbronze».

Sempre noi italiani, noi inviati e free-lance italiani, ci possiamo arrivare in treno o in macchina, spese contenute per il giornale che di te si serve... Ma per quelli stranieri è un profluvio di voli low cost che trasforma l’aereo in una «gita scolastica organizzata dal professore di arte e parzialmente finanziata da una serie di fabbriche di birra ben disposte». Ti imbarchi in aeroporti periferici, ci metti qualche ora ad arrivarci, atterri in aeroporti altrettanto periferici e distanti dalla meta un altro paio d’ore, ci arrivi su autobus dove l’aria condizionata è sempre rotta, voli con compagnie che hanno risparmiato anche sul carburante... Quello che ti sostiene è l’idea di entrare «in un regno di magici eccessi» dove lo champagne scorre come acqua e si vocifera che «alla festa ucraina» ci siano 150mila dollari di caviale che ti aspettano... Vale la pena soffrire, dunque.

Bene, adesso il nostro Jeff, il giornalista che ingloba l’intera categoria, ci dovrebbe dire cosa vedere, quali percorsi, quali Padiglioni, quali installazioni... Dove si va? Come si sceglie? Be’, conviene lasciarsi trasportare. C’è sempre un Padiglione Norvegese «che ospita una parete di cerchi gialli e neri in stile Op Art» e che si rivelano essere bersagli, tirassegni, un’intera parete su cui giocare con le freccette... C’è sempre un Padiglione Russo fatto di monitor che alternano immagini porno, immagini sportive, ultime notizie, c’è sempre un Padiglione Turco con il suo castello di plastica rossa e insomma c’è sempre un Padiglione di cui non ti ricordi più di quale Paese sia... E naturalmente c’è sempre un bel po’ di arte concettuale, nel senso che «si parte dal concetto che le opere sembrano fatte da scolaretti delle elementari, sia pure scolaretti con ambizioni di diciassettenni russi le cui madri vedove hanno risparmiato fino all’ultimo rublo per mandarli a un’accademia di tennis in Florida. In circostanze storiche diverse, moltissimi tra quegli artisti avrebbero assunto il controllo del Reichstag o governato la Cambogia con una ferocia mai vista». E sempre, naturalmente, ti può capitare di vedere degli africani vendere finte borse Prada o Louis Vuitton all’Arsenale, interrogarti sulle loro misere esistenze o sull’incresciosa assenza delle forze dell’ordine (dipende da come voti) e scoprire che no, sono anch’essi un’opera d’arte, un’installazione vivente, la simulazione del mondo esterno, perché poi alla Biennale nulla è quel che sembra, «il pallone è un teschio, il commercio è arte, il porno è un parto»... Un altro elemento da tener presente è la grandezza. Il nostro Jeff lo sa: «Che importa se sono istantanee di uno che si fa una sega su una poltrona di pelle in un appartamento di Zurigo», Padiglione Svizzero, è chiaro. «Basta spararle in formato gigante e sembrano... Be’ sembrano una schifezza, ma sembrano anche arte».

Sullo stato dell’arte, la stampa degli happy few si interroga. Sa che occorre essere problematici, viviamo in tempi di crisi, c’è lo scontro di civiltà... Non basta dire di una cosa che è di «una banalità sconcertante», perché si corre il rischio che qualcuno ti rimbecchi dicendo che «la banalità non ci sconcerta affatto. È un marchio di qualità. Sembra che abbiamo investito nella banalità. La gente continua a domandarsi quanto potrà durare, quando scoppierà la bolla. Il fatto è che la bolla è già scoppiata, solo che continua a dilatarsi lo stesso. È come la scoperta di una nuova legge fisica».
Sudati, piegati e piagati da cataloghi che pesano quintali e che ci trasciniamo dietro nelle false borse di false griffe che ai Padiglioni ti danno gratis e non ti costringono quindi a contrattare con gli africani di cui ora diffidi, perché potrebbero rivelarsi Art in progress, noi della stampa ci aggiriamo fra i Giardini e l’Arsenale, il Guggenheim e Palazzo Fortuny, come un sol uomo. Non ci sfugge un’esposizione, non lasciamo pieno un bicchiere, non lasciamo passare indenne un piatto di risotto... Se abbassiamo la guardia, è la fine, come Jeff ci ha appena raccontato. Uscito da una festa vicino all’Accademia, è entrato a una festa vicino a San Toma: stessa gente, stesso caldo, stesso cortile... «Con la differenza, scandalosa, che le bevande non erano gratis.

Incredibile ma vero! Bisognava pagarle». Benvenuti alla Biennale.

PS. Nei ringraziamenti che chiudono il romanzo, l’autore si dissocia dai giudizi sull’arte del suo protagonista. Lo facciamo anche noi. Per i Bellini questo e altro...

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