Ma prima bisogna fare dei tagli Sono un esercito

La recente polemica politica sulla scuola pubblica ha riportato all’attenzione generale l’inadeguatezza degli stipendi dei docenti italiani. Che le cose stiano così è fuori discussione, specie se si paragonano le retribuzioni dei nostri insegnanti a quelle di altri Paesi occidentali. È però doverosa qualche ulteriore considerazione.
All’origine della situazione attuale c’è, in primo luogo, un numero eccessivo di maestri e professori. L’Italia ne ha grosso modo quanti la Germania, nonostante quest’ultima abbia una ventina di milioni di abitanti in più. Per il futuro, bisognerà portare ai livelli europei il numero delle ore di insegnamento e, di conseguenza, ridimensionare quell’esercito di docenti che supera il milione di unità.
Per giunta, difficilmente si potrà retribuire in modo adeguato quanti s’impegnano nella scuola senza procedere a una differenziazione delle retribuzioni. È demagogico, oltre che oggettivamente falso, sostenere che tutte le materie siano uguali: che esigano la medesima preparazione e lo stesso lavoro, anche in termini orari (studio, correzione dei compiti, ecc). Se negli altri settori lavorativi, specie nel privato, esiste una varietà di livelli retributivi, perché mai un professore di matematica e fisica dovrebbe avere lo stesso stipendio di molti colleghi a cui, per forza di cose, viene chiesto assai meno? Tale riforma è la condizione necessaria alla piena valorizzazione di quanti, nella scuola, meritano un trattamento migliore.
C’è però da chiedersi «se» e «come» questa fuoriuscita dal modello egualitario che da decenni domina l’istruzione sia realizzabile entro un sistema educativo non solo statale, ma anche fortemente centralizzato. Nella scuola di oggi c’è il rischio che una retribuzione basata su premi e incentivi favorisca non necessariamente chi più s’impegna e chi più merita, ma invece quanti - per ragioni personali, sindacali o altro - sono vicini a chi decide chi va valorizzato e chi no.
Proprio per questo è importante che il mondo della scuola si sposti verso le logiche di mercato. Gli istituti devono essere davvero autonomi, dotati di bilanci indipendenti e chiamati a risponderne. Questo vuol dire abbandonare il mito del «ruolo», così che se un istituto perde iscritti, vanno messi in discussione gli stessi posti di lavoro.

Se gli operai delle fabbriche vengono licenziati, perché non deve mai succedere a un professore? L’autonomia scolastica, che è premessa all’imporsi di logiche premiali, deve portare a un ripensamento dell’istruzione pubblica, ma è chiaro che il modello deve essere quello di una competizione che dia eguale spazio agli istituti privati e ne adotti sempre più le logiche.
Per avere di più bisogna lavorare meglio e perdere pure qualche vecchio privilegio.

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