Hai voglia a fare distinzioni, in questi giorni, tra garantisti e colpevolisti. La consuetudine barbarica della pubblicazione delle intercettazioni sta trasformando l'Italia in una democrazia di guardoni. Che una pratica di questo genere sia incompatibile con le più elementari regole dello Stato di diritto, va da sé: i «rituali di degradazione», inaugurati nel nostro Paese con tangentopoli, sono lo strumento di killeraggio che nella seconda Repubblica è passato dalle dirette televisive nelle aule dei tribunali alle paginate dei grandi quotidiani. La chiacchiera telefonica spiattellata sui mass media si amplifica e si distorce ulteriormente, riproducendosi pericolosamente sotto forma di chiacchiera da bar.
Hai voglia ad aspettare le intese bipartisan per mettere mano a una legislazione più seria sulle intercettazioni. Mentre si confrontano giustizialisti e innocentisti, assistiamo allo svolgimento di un processo politico indiretto a un partito, Alleanza nazionale, e soprattutto al suo leader Gianfranco Fini, bersagliato fino ai dettagli più intimi della sua vita privata (e, per chi ha memoria del gossip politico tinto di rosa, non è la prima volta).
Non ci vuole la lente dell'investigatore per sentire un fumus persecutionis dietro quello che sta accadendo. Giorni fa il quotidiano del partito, il Secolo d'Italia, titolava correttamente: «Vogliono colpire l'immagine di An», evocando una vecchia attitudine a braccare giudiziariamente la destra per frantumarne la forza politica o contenerne l'espansione elettorale: negli anni Settanta con l'accusa di ricostituzione del partito fascista, oggi con l'operazione - chiamiamola così - «divani puliti».
È vero. Ma ormai il danno è fatto, la chiacchiera si è spostata al bar. Fini, che come al solito conferma l'intangibilità del suo profilo morale, appare come il personaggio di un dramma shakespeariano: il leader chiamato alle grandi decisioni, che si ritrova solo proprio nel momento critico in cui una decisione, una sola decisione può far implodere un'organizzazione politica o, al contrario, segnare un nuovo inizio. E ha di fronte strade diverse. Può seguire quella della difesa a oltranza dei suoi collaboratori, tenendo ferma la tesi dell'accanimento giudiziario. Visti tesi, testi e protagonisti, è più che legittimo. Ma, parallelamente, può anche intraprendere un altro percorso: tornare a parlare il prima possibile di politica e non di pettegolezzi, partendo da una riflessione seria sulle ragioni alla base del consenso che ricevono An e lui stesso.
Il leader della destra mantiene indici alti di popolarità politica perché nel corso degli anni ha saputo affermare la propria immagine di uomo politico responsabile, onesto, carismatico, che dà sempre la sensazione di avere in mano il «governo delle cose». Al tempo stesso, la destra si è imposta nell'immaginario popolare della Seconda Repubblica come il partito dotato di un forte senso dello Stato, di rispetto per le istituzioni, di percezione della distinzione tra interesse generale e interessi individuali o di partito. L'aveva detto bene cinque anni fa Ernesto Galli della Loggia: «Gli ex missini sanno cosa sono lo Stato e la storia italiani e possiedono una cultura della sfera pubblica». An ha raccolto il proprio consenso, similmente ai Democratici di sinistra, rivendicando un valore aggiunto di ordine etico, il radicamento storico della propria cultura politica e l'orgoglio di conquistare voti grazie alla reputazione e non a pratiche clientelari. Per questo, il vento di crisi che oggi sferza An può seminare più danni che altrove, e va affrontato con la massima determinazione e lungimiranza, anzitutto da parte del suo leader.
Così entra in gioco il binomio imprescindibile per la politica contemporanea: immagine e stile. Non v'è dubbio che, in questi anni, l'approdo di An al governo abbia iniettato in parte della sua classe dirigente una sorta di virus «neocafonista» che non rappresenta alcunché di rilevante dal punto di vista del codice penale, ma che difetta di stile tanto quanto colui che si siede a tavola, mangia con le mani e mastica con la bocca aperta. E così, nel corso del tempo, si sono accumulati i mugugni di tanti militanti di base ed elettori che non vedevano troppo di buon occhio il diluvio di auto blu, le sirene, i codazzi, i generoni, le feste formato Dagospia, le segretarie panterate e i portaborse griffati, l'ostentazione insomma dei più abusati simboli del sottopotere. Il ritorno a una maggiore sobrietà dei costumi, durante la fase di opposizione, deve essere inteso non come una parentesi ma come un imprescindibile punto di riferimento per tutta la classe dirigente di An, staff compresi.
A proposito di classe dirigente, Fini deve impedire che questa fase di arrocco e di difesa identitaria di una «comunità» politica si traduca in una chiusura all'esterno. Si replicherebbe l'errore compiuto ad aprile di non aver saputo sfruttare la possibilità, offerta dalla nuova legge elettorale, di un consistente «ricambio d'aria» nella rappresentanza parlamentare, immettendo competenze ed energie nella classe dirigente. Invece, proprio questa può essere la fase, con un congresso nazionale all'orizzonte e un'ipotesi di partito unico in agenda, in cui favorire un processo di massimo ricambio nel partito, attingendo a riserve inespresse di energie umane e culturali anche come strumento di promozione di una nuova immagine. Ciò significa una reale apertura agli strati più dinamici e innovatori della società italiana, i giovani e i ceti medi metropolitani (le due categorie in cui si sono persi consensi), e a quella piccola parte di ceto intellettuale che non ha paura di contaminarsi a destra, poco considerato nella fase di governo ma ancora disposto a dare il suo contributo per alzare il profilo qualitativo della proposta politica di An.
In questi giorni, c'è chi sospetta che dietro l'unanimismo di facciata, che ha visto l'intero partito stringersi attorno al suo capo, covino sentimenti frondisti. C'è anche qualche opinionista che, a bassa voce, sostiene che il presidente di An dovrebbe farsi da parte. Sono argomentazioni senza senso.
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