Il club Blue Note di Milano è nel quinto anno di attività; o nel quarto, come sostengono i pignoli che non vogliono contare lo spezzone della primavera del 2003, dal momento che il jazz club ha aperto i battenti per la prima volta il 20 marzo di quell'anno. In questo breve periodo è diventato il tempio della musica afro-americana nel capoluogo lombardo, prendendo il posto che fu del mitico Capolinea di Giorgio Vanni. Lo descriviamo per chi non ci fosse ancora stato. Si trova al numero 37 di via Pietro Borsieri, nel quartiere Isola. Fa parte di un gruppo di locali internazionali con lo stesso nome: la casa madre è a New York nel Greenwich Village, un altro è a Las Vegas, quattro sono in Giappone, ormai Paese di bengodi del jazz, e uno a Seul. Dicono che la sala milanese sia la più bella. Ha 280 posti, è a pianta quadrata ed è disposta su due piani. Caratteristico è il soffitto di vetro che mostra i palazzi circostanti assai più alti. Per il resto - cioè il colore dominante che è ovviamente il blu, i tavoli la cui altezza è la stessa del palcoscenico, le sedie, le luci, le fotografie alle pareti - assomiglia alle consorelle. È tempo di riparlarne, dopo almeno tre anni, con Paolo Colucci, che vuole essere chiamato «inventore», non altro, del Bluenotemilano, come si legge sul web.
«Qui c'era una teleria - ci tiene a ricordare -. Quando ha cessato l'attività, ci siamo piazzati noi. Il mio primo pensiero è stato di adottare le tecniche necessarie per non disturbare i vicini, e per fortuna ci sono riuscito in pieno».
Qual è il rapporto con i Bensusan, proprietari del Blue Note di New York?
«Siamo autonomi. A loro passiamo soltanto una commissione sul bar e sul ristorante».
E con la casa discografica omonima che - cogliamo l'occasione per ricordarlo - si occupa di jazz dal 1939?
«Si tratta di due parrocchie diverse, ma c'è da molti anni un accordo di collaborazione e un rapporto di simpatia. Nei limiti del possibile cerchiamo di favorire i musicisti che incidono i dischi con la Blue Note, è naturale».
Qualcuno, un paio di mesi fa, ha scritto che il pubblico del Blue Note di Milano è indisciplinato. Che cosa risponde?
«Che l'autore di quell'articolo - l'ho letto, non ne dubiti - è prevenuto, o conosce poco i jazz club, oppure pecca di tutt'e due le cose insieme. Non è possibile, logicamente, impedire agli spettatori di bere o di cenare durante i concerti, questo non è un teatro. Ma la musica non viene mai disturbata. Perfino il famigerato trillo del cellulare dimenticato acceso è rarissimo, e nessuno fotografa con i flash. E chi parla lo fa piano, con educazione. Su questi punti siamo al top, altro che indisciplina».
Problemi?
«Ce ne sono, si capisce. Vede, noi, pur senza volerlo, abbiamo catturato un pubblico più ampio di quello degli intenditori di jazz, che per questo è imprevedibile. A volte accorre in massa per una sera che dovrebbe essere di secondo piano, e viceversa. Questo può crearci dei guai. Poi c'è sempre la questione aperta del set delle 23.30, che raramente si svolge con la sala esaurita. È tardi, lo sappiamo, per una città dove si lavora molto. E tuttavia, per noi uno o due set costano lo stesso, e l'artista ha bisogno di rifiatare almeno per un'ora fra l'uno e l'altro. Le soluzioni possibili sono soprattutto due: un set solo, più lungo, con inizio alle 21.30 o alle 22; oppure due alle 20.30 e alle 22.30. Si accettano pareri e consigli. Ci sono anche problemi economici, ai quali abbiamo fatto e facciamo fronte riservando il lunedì, e qualche altra sera (ma molto di rado) ad eventi privati; inoltre abbiamo allargato la chiusura estiva, perché a giugno già cominciano dovunque, Milano compresa, i festival estivi, e far loro concorrenza sarebbe follia. Piuttosto, ci sembra di meritare le sovvenzioni pubbliche.
Il che, gridiamolo forte, non è né bello né istruttivo. Ha qualche sogno?
«Sempre lo stesso: Oscar Peterson, prima che sia troppo tardi. Ma temo di essere già fuori tempo massimo».
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