di Tony Damascelli
Niente Champions siamo inglesi, può essere la commedia di grande successo nei teatri londinesi. È lannus horribilis per i club ricchi e fragili. Il football britannico ha smarrito la propria identità. La Scozia è crollata, così come lIrlanda del Nord e il Galles, respira ancora la repubblica di Dublino grazie allesperienza e alla rabbia di Trapattoni e di Tardelli su un territorio sempre più povero di talenti, ma la Premier league è la fotografia che dovrebbe mettere paura al resto del mondo. I due Manchester, United e City, retrocessi in Euroleague per merito di Basilea e Napoli, lArsenal preso a torte in faccia dal Milan, il Chelsea kolossal ridotto a filmetto amatoriale dal Napoli. Non sono episodi ma forse linversione di tendenza (ecco perché il fenomeno dovrebbe preoccupare) di un sistema e di unorganizzazione calcistica che per mezzo secolo è stata protagonista nei tornei continentali: 11 coppe dei campioni contro le 13 spagnole e le 12 italiane devono tenere conto anche dei cinque anni di esilio europeo dei club inglesi dopo i fatti di Bruxelles allo stadio Heysel. Il calcio inglese da una parte si è allineato alla filosofia di gioco del continente, puntando sulla qualità tecnica, con larrivo dal resto del mondo di calciatori di grande spessore e migliorando laspetto tattico per una «apertura» alla filosofia europea, soprattutto latina. Ma, contemporaneamente, ha dovuto pagare il prezzo di una invasione straniera che ha depauperato il vivaio interno e, dunque, quei valori agonistici che da sempre sono stati i segnali caratteristici della sua scuola. I due Manchester, il Chelsea e lArsenal sono guidati da quattro allenatori che hanno origine differente, uno scozzese, Ferguson, un italiano, Mancini, un portoghese, Villas Boas, un francese, Wenger, mentre la nazionale ha appena divorziato da Capello, cinque teste diverse e lontane nel modo di intendere football mentre il punto di riferimento per la scuola inglese torna a essere un inglese doc come Harry Redknapp (eliminato, tuttavia, con il suo Tottenham in Euroleague), quasi una ricerca, un tentativo di restaurazione dellimpero. Non marginale, poi, lingresso dei capitali stranieri nel football britannico, una iniezione di soldi pesanti ma poco pensanti, una violenza allo spirito patriottico tipico dellisola, una trasformazione dellidentità del club. Ovviamente in campo sono poi i calciatori a smentire queste premesse o a confermarle.
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