Boeri snobba il Pd: «I partiti? Me ne frego»

(...) Giuliano Pisapia, un’altra parte, una delle tante, si chiede cosa ne penseranno i cattolici se non sarà mica troppo di sinistra, se è «uno che divide» o «uno che unisce». I più pragmatici si spingono fino a chiedere lumi sul programma, naturalmente senza ottenere risposte concrete. E così, se qualcun altro candida l'architetto Stefano Boeri, c’è chi ha da ridire sulla sua collaborazione all’Expo o sulla sua estrazione alto-borghese, se davvero rappresenta, come pretende, la mitica «società civile» questa sconosciuta, perché mai non è iscritto al Pd, come la pensa sui temi «eticamente sensibili» e via così, volando altissimo e tenendosi ben distanti dalla domanda delle domande: che garanzie ci dà di saper amministrare una città difficile come Milano? Come pure per l’eventuale candidato dei cattolici Valerio Onida che essendo stato presidente della Corte costituzionale, andrebbe bene a qualcuno «per il profilo istituzionale» e a qualcun altro perché «ha sostenuto battaglie sulla legalità». E allora?
D’altra parte Gabriele Albertini ha detto che voterebbe volentieri per Mario Calabresi, direttore della «Stampa» se qualcuno lo candidasse. E perché? Cosa gli fa pensare che un buon giornalista, figlio di un grande poliziotto vittima del terrorismo rosso sarebbe un buon «amministratore di condominio», come proprio il sindaco Albertini, con una certa civetteria, si vantava di essere? Comunque a sinistra devono ammettere che i loro avversari sono più concreti nelle scelte: quando il centrodestra candidò Albertini, la scelta era caduta su un piccolo industriale presidente di Federmeccanica, la più difficile delle federazioni di Confindustria. Letizia Moratti, poi, quando fu candidata, dopo diverse importanti esperienze imprenditoriali, era stata presidente della Rai e aveva avuto la responsabilità di un ministero impegnativo come quello dell’Istruzione. Insomma, si trattava di persone con importanti esperienze amministrative. Negli anni della esecrata prima Repubblica si diventava sindaco dopo una lunga e impietosamente selettiva vita di partito o di sindacato, dopo aver fatto il consigliere magari prima in un centro della provincia e poi a Palazzo Marino, quindi si faceva per qualche anno l’assessore. Alla fine la scelta, certo, era politica, anzi partitica e di corrente, ma si teneva ben presente il curriculum e le capacità amministrative. E bisogna ammette che, almeno a Milano, i risultati non erano dei peggiori.

Nostalgia? Assolutamente no. Semmai nostalgia per quel po’ di buonsenso che indurrebbe la sinistra a guardare il contenuto invece del contenitore e a chiedersi: ma questo signore che stiamo candidando sarà capace di fare il sindaco?

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