All'inizio degli anni Settanta la cultura hippie mostrava la corda. Una nuova generazione si faceva avanti e non voleva saperne di comunità, collettivi e pseudo-marxismo. L'individualismo guadagnava terreno portandosi dietro altri miti: il successo, il lusso, il carisma. Il realismo era diventato un insopportabile limite alla fantasia. L'autenticità si era ridotta a una posa: meglio la finzione dichiarata. Nel mondo della musica, lustrini e mascara prendevano il posto del grigiore e dei maglioni a pelle. Le band sparivano, sostituite dai solisti, oppure presentavano un leader indiscusso almeno sul piano dell'immagine. Il folk e il rock progressivo uscivano dal gradimento dei teenager se non dalle classifiche. Al loro posto un chiassoso, pacchiano e spettacolare genere nuovo di zecca ma radicato negli anni Cinquanta: il glam. Principali esponenti: in Inghilterra i maestri T. Rex di Marc Bolan e l'allievo David Bowie; negli Stati Uniti, Alice Cooper. Altri seguiranno, occupando tutti i posti disponibili nella scala che va dall'estrema raffinatezza (Roxy Music) alla estrema, e dunque a suo modo ricercata, rozzezza (Slade). Ora, in pieno revival, esce Polvere di stelle. Il glam rock dalle origini ai giorni nostri (minimum fax, pagg. 690, euro 28), un interessante saggio scritto da Simon Reynolds, già autore del discusso Retromania, libro che metteva a fuoco l'eterno ritorno delle mode passate, segno forse dell'incapacità della nostra epoca di creare fenomeni, ora che tutto (o quasi) il passato sta nella memoria digitale della Rete ed è immediatamente fruibile.
Polvere di stelle mostra quanto il glam fosse al contempo innovativo e reazionario. Innovativo «nei termini di stile, presentazione visiva, teatralità e sperimentazione». «Reazionario» nel desiderio di fuggire in una fantasia lontana dal barboso impegno civile e nella nostalgia del rock semplice ma incisivo delle origini. E cosa dire dei riferimenti culturali dei più dotati rappresentanti del glam? Tolkien e C.S. Lewis per Marc Bolan e i T. Rex. Nietzsche per David Bowie. Mentre Alice Cooper, noto per le sue posizioni conservatrici, si presentava come un prodotto statunitense al cento per cento, nel bene (la libertà) e nel male (l'alienazione). Mentre il pop si trasformava, in politica emergevano personalità destinate a diventare icone del mondo libero: Ronald Reagan e Margaret Thatcher.
Il glam esplode con i T. Rex di Marc Bolan nel 1971-1972. Due anni di successi paragonabili a quelli dei Beatles, conclusi da un declino artistico precoce e seguiti da un incidente mortale in automobile. Hot Love, Get It On, Metal Guru e tanti altri 45 giri sono la quintessenza del genere: chitarroni hard rock calati in canzoni dalle melodie zuccherose. I critici si indignavano. I ragazzini impazzivano. Look stravagante, dandismo ostentato, una inedita miscela di machismo (nella gestualità) e androginia (boa di piume e scarpe da donna) erano le carte vincenti di Bolan.
Alla corte dei T. Rex, fa il suo ingresso nella serie A del rock anche David Bowie. Partito come cantante da cabaret, Bowie si era riciclato senza convinzione in qualità di folk singer, aveva recitato col mimo Lindsay Kemp e provato inutilmente anche la via del rock duro. Poi la folgorazione alla quale dovette contribuire la tournée del 1969 come spalla dei T. Rex: creare un personaggio fondato su carisma, magia verbale e senso teatrale. Cosa c'era di meglio dell'interpretare una rockstar portando all'estremo le caratteristiche dell'amico e ormai rivale? Nasce così Ziggy Stardust, l'alieno che annuncia la decadenza dell'Occidente: un ruolo che mescola ispirazione artistica e regole del marketing, ben note a Bowie, ex pubblicitario. Sul mercato è un trionfo: Ziggy è l'offerta che incontra la domanda. The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (1972) proietta l'autore nell'Olimpo delle divinità pop. Da quel momento Bowie applicherà il rebranding: il marchio «David Bowie» si riposizionerà cambiando continuamente maschera. Fuori quella usurata di Ziggy, dentro quella del Duca bianco e così via.
La componente teatrale, derivata dal Grand Guignol, è l'elemento più importante degli Alice Cooper (il nome del gruppo coincide con quello, inventato, del suo leader). La band punta a scioccare il pubblico, giocando con l'immaginario dei film horror di serie B ma anche col surrealismo di Dalí, che ebbe anche come collaboratore. Alice Cooper è un personaggio, tanto quanto Ziggy Stardust. Lo incarna su e giù dal palco il cantante Vincent Furnier, che gira con una Rolls Royce targata «Greed» (cupidigia). Molti decenni dopo i rapper più famosi faranno la stessa cosa. L'album-manifesto è Billion Dollar Babies (1973), esaltazione del rock come impresa redditizia e «affermazione degli Alice Cooper come vero gruppo americano, cioè patriottico e capitalista» (Reynolds). La copertina riproduce un portafoglio. All'interno c'è una gigantesca banconota da un miliardo di dollari. Un giornale, davanti a uno show del 1972, sentenziò che gli Alice Cooper avevano «sepolto lo spirito di Woodstock».
Il glam, alla fine degli anni Settanta, diventa una corrente sotterranea pronta a riaffiorare dove e quando meno te l'aspetti, perfino nella disco music e nel punk
dei Sex Pistols, non a caso il cantante Johnny Rotten era un fan degli Alice Cooper. Polvere di stelle è un libro consigliato agli amanti della cultura pop e a chi si occupa di «immagine» nel senso più vasto del termine.
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