La Bolivia nazionalizza l’industria petrolifera

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

L’hanno saputo dai soldati, dai militari boliviani che si sono presentati all’alba in tutti i giacimenti in attività di gas naturale e di petrolio e li hanno «occupati» simbolicamente, si intende, anche perché non hanno incontrato alcuna resistenza: mandandoli invece di limitarsi a emanare un decreto in abito civile, Evo Morales ha voluto dare il segnale che il nuovo regime boliviano è realmente «rivoluzionario». Ha mantenuto la parola: ha messo le mani sulle risorse naturali di cui aveva denunciato durante la campagna elettorale il «controllo straniero». E lo ha fatto con la mano pesante, per sottolineare la sua collocazione ideologica, per attirarsi il «bravo» di Hugo Chavez e di Fidel Castro, per meglio rinfocolare il risentimento nazionalista e, naturalmente, per sfidare gli Stati Uniti.
Morales ha tradotto così immediatamente in azioni il proclama ideologico emanato poche ore prima assieme, appunto, al presidente venezuelano e al dittatore cubano, smentendo così fra l’altro coloro che fino a ieri avevano scommesso che la Bolivia non avrebbe «imitato il Venezuela», se non altro perché gliene mancano i mezzi. Una delle due cose che Morales si propone con questo gesto è proprio procurarseli. Il succo finanziario della decisione del suo governo è infatti questo: d’ora in poi le compagnie straniere perderanno la proprietà e il controllo delle risorse e, se vorranno continuare nelle prospezioni e nella produzione di gas naturale, dovranno farlo da semplici «operatori». Entro sei mesi esse dovranno cedere allo Stato boliviano i «pacchetti di controllo» delle varie società, che diventeranno di proprietà pubblica «almeno» per il 51%. Quel che ancor più conta, dei profitti delle esportazioni, che oggi sono divisi al 50% fra lo Stato boliviano e le compagnie petrolifere, è che a queste ultime non rimarrà che il 18%. Questo perché la «royalty» passerà dal 50 all’82%.
Morales aveva promesso che avrebbe fatto «una nazionalizzazione, non un esproprio». Infatti lo Stato boliviano non sequestrerà, ma acquisterà le quote delle società straniere fino a trasferire il 51% alla mano pubblica. Gli interessati, tuttavia, considerano il provvedimento alla pari di un esproprio. E denunciano il «colpo di mano». Con risentimento tanto maggiore in quanto, nonostante tutta la retorica anti americana di Morales, le compagnie Usa non controllano affatto la maggioranza dei giacimenti boliviani. La fetta più grossa appartiene infatti a una società brasiliana, la Petrobras, la cui produzione rappresenta da sola un quinto del pil della Bolivia. L’investitore straniero numero due è la Spagna e da Madrid oltre che da Brasilia vengono le proteste più vibrate.
Il presidente brasiliano Lula ha convocato un vertice energetico, pienamente giustificato dal fatto che la Bolivia produce in questo momento metà di tutto il gas naturale che il Brasile deve importare. Si tratta dunque non soltanto di un colpo alle finanze brasiliane ma anche all’indispensabile «nutrimento» energetico del Paese. Senza tener conto che Lula guida un governo di sinistra, sia pure più moderato di altri nell’America Latina, e si attendeva forse un trattamento in qualche modo preferenziale da un alleato politico. Invece Morales ha evidentemente compiuto una scelta discriminante all’interno della sinistra allineandosi ideologicamente e retoricamente con Castro, ma soprattutto con Chavez, l’alleato che può fornirgli, e gli ha promesso, un appoggio concreto, anche finanziario.

Le relazioni fra gli Stati Uniti e la Bolivia, fra la Superpotenza e il Paese più povero del Sud America si sono rapidamente deteriorate dopo la vittoria elettorale di Morales. Per cominciare il governo di Washington ha fatto sapere che diminuirà del 96% la sua assistenza militare alla Bolivia. In pratica, la cancellerà.

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