Marco Pannella certe piccole verità le dice senza mascherarsi, gli vengono fuori per dispetto, perché è una vita che fa i conti con se stesso e i dubbi, le paure, le debolezze non se le tiene dentro. È come i personaggi di Dostoevskij, si porta nelle rughe i demoni del giocatore, la pallina che rimbalza sui numeri, sul rosso e nero, sul pari e dispari, è unemozione che non può sfuggire. E così ogni volta rimette in gioco la storia, il passato, le vecchie battaglie, i valori, tutto quel capitale umano di idee, passioni, sconfitte, diaspore, illusioni, metamorfosi, successi stravolgenti, dilapidazioni improvvise che, in sintesi, chiamiamo partito radicale. Sarà così ancora e lui sorride, infame.
Solo che questa volta guarda tutto con la lucidità quasi saggia degli anni e così se qualcuno gli chiede della sfida della Bonino, lui borbotta malmostoso: era meglio andare da soli, stavolta se Emma perde siamo rovinati. La parte evangelica di Pannella sa che se i radicali vanno a governare, fosse pure solo una regione, significa che qualcosa nel mondo non funziona. Cè un trucco: o il mondo è cambiato, oppure i radicali non sono più radicali. E siccome il mondo gira sempre sullo stesso asse, Marco sente puzza di bruciato.
La Bonino in questo è meno evangelica. Gli scranni del potere non le fanno paura. Solo che locchio di Pannella qualcosa nel futuro ha visto, tanto che per proteggersi le spalle ha buttato nel piatto il nome scomodo di Tinto Brass, che per il Vaticano, come dicono nel Pd, ha lo stesso effetto di un dito nellocchio. Metterlo in lista è un bello scherzo da mangiapreti. Il guaio è che, vittoria o sconfitta, i radicali non saranno più gli stessi. È come se la Bonino si giocasse nel Lazio tutto il capitale del suo partito. Se perde è un fallimento totale. È la prova che i voti si contano e non si pesano, che vai bene per le battaglie civili, ma sei nulla davanti al voto, alle urne, alla democrazia quantitativa. Neppure il Pd liquefatto di questi anni ti darebbe più credito.
Ma la Bonino può vincere e per i radicali vale una mutazione genetica. È la politica degli assessori, dei compromessi, dei bracci di ferro con i grandi elettori post democristiani e con il comitato di affari in quota Pd. È cercare di amministrare e governare una regione da radicali, mentre i tuoi alleati, i tuoi soci, continuano a fare le cose come da tradizione, con le clientele e i soldi da distribuire. Quella domanda è lì, come una scommessa o una maledizione: e se il potere finisse per contaminare un partito orgogliosamente diverso? Emma griderà, bestemmierà, e non accetterà di sentirsi sporca. Ma in lei, nel partito, nella sua gente qualcosa sarà cambiato. Per sempre. E per Pannella questa è una morte un po peggiore.
Forse è il bello di queste elezioni. Qui, nel Lazio, in tutto ciò che circonda Roma, sembra che molti dei protagonisti siano pronti a giocarsi, fino in fondo, gran parte del loro capitale. Cè unatmosfera da poker texano, da all in, da sfida finale, senza remissione dei debiti, senza scorciatoie. Ognuno misura la sua statura. Questo vale anche per la Polverini e per chi le sta dietro. Guardate Fini, che questa candidatura lha voluta contro il suo stesso partito, contro i padroni del voto romano, contro le ambizioni di Rampelli e Augello, con il «fai come vuoi» di Berlusconi, con le perplessità di Alemanno e Caltagirone, contro il liberalismo e quella massa di elettori di destra che non crede alla buona fede dei sindacati, neppure se si chiamano Ugl. È la Polverini che scende in campo, ma è Fini che ci mette il capitale politico. È un modo per vedere se i suoi scenari sono qualcosa di più del vestito nuovo disegnato dalle sartorie politologiche. È la resa dei conti del voto. Non ci sono più i fuori onda sulla giustizia, le contaminazione del Secolo o di Farefuturo, il coraggio sulla ricerca di uno ius soli o le conversioni sulla vita e sulla morte, sugli embrioni o sul testamento biologico. È solo la vecchia campagna elettorale, con i voti da prendere, con promesse e ragioni, manifesti e lobbysti di periferia. È lora della conta, quella che ti dice quanta carne cè nel portafoglio di Fini. È valutare il peso della variabile Casini, capire se il suo gioco di percentuali sposta la bilancia a destra o a sinistra. Non è una partita che Gianfranco si gioca da solo. Bene o male con lui cè il Pdl, cè la Roma capitale di Alemanno, ci sono i buoni uffici di Letta e lombra di San Pietro. Cè tutto il peso dei palazzi di Caltagirone. Cè tutto questo. Ma cè anche una logica che non fa sconti. Questa volta la sconfitta non si paga in solido. Se davvero sulla ruota del Lazio esce il rosso Bonino cè un solo uomo a cui toccherà passare alla cassa. Ed è Gianfranco Fini. La vittoria è di tutti, la sconfitta è di uno. Non è giusto, ma è il prezzo che la politica esige per chi sceglie di giocare dazzardo.
Questa è una terra cinica. Non ha paura di abbassare i pollici.
Qui non si parte, qui si finisce. Le sconfitte e le vittorie hanno una finestra sulleternità.
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