Bonura, vite sbagliate di uomini non illustri

I ritratti avventurosi di ignoti defunti in una lucida «Spoon river» italiana

A tutti sarà capitato di percorrere una strada sempre nella stessa direzione. E poi un giorno, costretti per una ragione qualsiasi a farlo nell’altro verso, di stupirsi della sua irriconoscibilità. Si prova qualcosa di simile nello sfogliare i profili delle vite di uomini non illustri che Giuseppe Bonura ha raccolto sotto il titolo leggermente fuori sesto del Prato delle voci di marmo (Aragno, pagg. 193, euro 14). Sono ritratti molto belli, limpidi, ma ci si vergogna un po’ a stilare delle considerazioni di tipo estetico, quasi si temesse di essere accusati di futilità. Basta la loro genesi a spiegare il perché. L’autore, passeggiando tra le lapidi di un cimitero, non ha resistito all’impulso di ricostruire le vite di coloro che lì riposavano, e di cui rimaneva tanto poco. La laconicità delle date, lo sbiadito delle fotografie. Alcuni congiunti hanno accettato, «con un misto di imbarazzo e di tenerezza», di dargli i necessari ragguagli. E si può dire che ne sia valsa la pena, perché i cammei di Bonura offrono davvero quello spettacolo commovente e meraviglioso che per Platone caratterizzava il procedere delle anime sui prati di asfodelo.
Non si pensi, tuttavia, ad una successione di elegie. I capitoli del volume inquadrano piuttosto le vite avventurose, latamente imprenditoriali di uomini e donne incalzati dall’avventatezza, dalla smania di sparigliare le carte foss’anche a costo di poggiare il collo sul ceppo di un’intuizione sbagliata. Esseri sospinti da una sorta di millenarismo individuale, convinti che dietro l’angolo li attenda un Graal che basterebbe afferrare per sentirsi finalmente realizzati, o felici.
Dicevamo della strada percorsa nelle due direzioni. Ci riferivamo alla struttura del volume, composto da dittici tanto sapientemente incernierati che il passaggio dalla prima alla seconda parte di ognuno di essi costituisce il punto di forza di queste pagine. Si comincia con lo scorrere una biografia del defunto offerta da uno sguardo pubblico. È la voce della comunità, o di un osservatore che ne rappresenta le opinioni e i valori. Subito dopo il lettore, che già credeva di possedere una quantità di dati sufficiente a farsi un’idea della persona, si ritrova sotto il naso una manciata di capoversi in corsivo, scritti nella prima persona singolare delle lapidi sulla via Appia o di Spoon River. E comprende che non aveva capito nulla. Uomini fatui rivelano un nucleo morale duro, donne apparentemente trascinate dagli eventi lasciano intendere di aver avuto una percezione lucidissima della fase storica in cui si muovevano, e così via. Anche quando l’occhio pubblico e quello interiore restituiscono immagini comparabili, il rapporto che le lega appare comunque incommensurabile: come il lato del quadrato e la diagonale, o come il côté Guermantes e il côté Swann in Proust. Quelli di Bonura sono dunque anche apologhi che ci invitano a sospettare di aver «mancato» la vita di coloro che credevamo di conoscere meglio di noi stessi.

E tale strabismo tra la prima e la terza persona è accentuato dalla tendenza alla recidiva che hanno queste anime, tanto audaci da respingere la saggezza postuma consentita dalla morte. Forse hanno intuito che esiste una convertibilità tra vita e idiosincrasie. Non a caso, rivendicano con orgoglio tutti i loro errori.

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