La Borsa e gli interessi del Financial Times

Brillanti, acuti, talvolta proprio illuminanti: siano abituati da anni ad apprezzare articoli e analisi del Financial Times. Anche se non ci è sfuggito che spesso quando la Bibbia della City guarda al resto della vecchia Europa, ha un po’ il vecchio vizio che portava i britannici a dire cose del tipo: Nebbia sulla Manica, il Continente è isolato. Dall’alto della tradizione di chi ha inventato la finanza moderna (quella antica è cosa più di senesi, genovesi, fiorentini e milanesi) a Londra non sono mancati giudizi tendenzialmente sprezzanti su mangia-rane, crauti (diventati dopo la Seconda guerra mondiale anche e più pericolosamente «unni») e maccaroni. In particolare, poi, le frequentazioni dei Pearson, proprietari della testata londinese, con personalità italiane come Carlo De Benedetti, hanno aiutato a raccogliere pettegolezzi sul nostro Paese non sempre benevoli. È in questo contesto che hanno suscitato un qualche stupore alcuni recenti interventi del quotidiano color salmone, quello originale, in inglese, non il nostrano. In questo senso si sono lette alcune durezze inusitate verso italiani banchieri e manager di grandi imprese di servizi che erano apparsi intoccabili anche Oltre Manica da quella sorta di internazionale dei cicisbei (al di là dei più puntuali condizionamenti della Santa Pubblicità) che assimila il mondo, in particolare quello dei media. Anche sulle recenti vicende di Mediobanca e Generali non hanno stupito tanto i soliti giudizi contro Cesare Geronzi che fanno parte del teatrino di certa stampa economica, quanto l’intervento così deciso perché prevalesse una forte personalità alla guida della Compagnia di assicurazioni di Trieste. Certo dalle parti della City si era fatto specificamente il nome «impossibile» di Mario Draghi ma il messaggio che arrivava era la non proponibilità del rinnovo di Antoine Bernheim o di una fragile soluzione interna. Insomma un lavoretto per il re di Prussia.
Altrettanto deciso e un po’ sorprendente per un quotidiano tutto concentrato nella lotta pro magistrati e antiberlusconiana, la dura denuncia verso i pm e i giudici che a Roma tengono in carcere prima del processo un manager di valore internazionale come Silvio Scaglia, tornato in Italia per mettersi a disposizione della giustizia.
Insomma tutto sommato pare proprio di rilevare come sulle sponde del Tamigi stiano riducendosi gli spazi per i soliti snobismi e che le vicende della Penisola siano guardate con una cura analitica spesso nei tempi andati latitante. Non sarà, forse, ci chiediamo, che la fusione tra la London Stock Exchange e Piazza Affari che tanti clamori sta suscitando dalle nostre parti per il sottodimensionamento dei manager tricolore nella nuova Borsa e per la tendenza non proprio nuovissima delle nostre banche di concentrarsi sui risultati a breve senza considerare gli interessi strategici, soprattutto quelli nazionali, non sarà che questa fusione stia portando anche risultati per altro verso non disprezzabili? Non sarà che essendo diventato il mercato finanziario italiano una questione anche del cortiletto di casa britannico, a certi manager che prima sembravano così carini e appuntino, si fanno ora meglio i conti in tasca.

E altri che venivano considerati espressione del fosco potere italiano, ora sono guardati con altri occhi? Che lo strapotere delle toghe che sembrava giusto quello che serviva ai maccaroni, ora che crea intralci incivili anche alla City, sia guardato con assai minore benevolenza?

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