Cultura e Spettacoli

Bosetti: "I guerrieri laici sono già in affanno"

Il fondatore di Reset: lamentarsi delle ingerenze clericali è di gran moda ma sterile e controproducente. "L’opzione pro o contro la religione è solo un surrogato delle vecchie contrapposizioni ideologiche"

Bosetti: "I guerrieri laici sono già in affanno"

Finora il composto esercito formato da atei, laici e laicisti ha respinto le fanatiche orde del popolo dei credenti con un sonoro «Vade retro», arginando ogni possibile (e sciagurato) sconfinamento tra la sfera religiosa e quella laica. Ma forse sarebbe meglio sostituire l’urlo con un più conciliante «Vieni avanti»: ne guadagneremmo tutti. È lo scomodo consiglio che, da laico di ferro, Giancarlo Bosetti si permette di dare ai suoi colleghi “senza fede” nel suo nuovo libro non a caso intitolato Il fallimento dei laici furiosi (Rizzoli): un saggio lucido, provocatorio, intelligente - utile ai cattolici integralisti come agli atei illuminati - che tenta di spiegare perché le religioni non devono essere viste come un nemico da annientare, cosa che ha finora portato pochi vantaggi e parecchi danni, ma semmai un prezioso alleato nelle sfide etiche e morali che la società attuale, inquieta e disorientata deve affrontare. Lamentarsi dell’invadenza della Chiesa è di moda ma - spiega Bosetti - si tratta di un atteggiamento spesso sterile. «Lo Stato liberale non può vivere della sola indispensabile, però vuota, equidistanza... ha bisogno di essere alimentato da una società civile ricca di risorse culturali, ideali e politiche... e ha bisogno di fede e fedeli».

Come accoglieranno il consiglio gli «affannati guerrieri laici»?
«Non lo so, ma è ora che i laicisti lascino cadere la diffidenza verso le confessioni religiose. Senza cancellare i confini tra uno stato liberale e una teocrazia, perché non chiedere aiuto alla fede? Perché non invitarla sulla scena pubblica?».

Già, perché?
«La religione è portatrice di problemi, differenze, conflitti, ma porta anche in dote un capitale sociale coesivo di cui oggi c’è grande scarsità. Il vecchio schema che auspica il declino della religione di pari passo con l’avanzata della civilizzazione è una visione errata e in contrasto con la tendenza generale. L’umanità non si sta per nulla allontanando dalla religione, come crede un illuminista schematico come Carlo Augusto Viano. Anzi. Agli inizi del ’900 i credenti delle maggiori confessioni nel mondo erano il 67%; nel 2005 il 73%; e nel 2050 arriveranno all’80%. Ci sono anche motivi demografici, ma è innegabile che la crescente solitudine e confusione dell’individuo nella vita contemporanea si traduca per molti nell’abbracciare una religione».

Lei sostiene che la religione costituisce una risorsa enorme ai fini del bene sociale. Significa che il senso civico non basta?
«Il senso civico è una cosa eccellente, ma implica già un impegno di responsabilità sociale. L’idea di liberalismo che si è affermata si fonda sull’autonomia individuale e sui diritti soggettivi dell’individuo: libertà di scelta della donna in caso di aborto, libertà di scelta della propria condotta sessuale, libertà di divorziare. Libertà imprescindibili, sia chiaro. Ma un’idea del liberalismo basata solo sull’autonomia individuale ci lascia a corto di strumenti che ci facciano interessare - e che ci colleghino - al resto del mondo, agli altri, ai problemi ambientali, economici, della pace... Insomma, serve qualcos’altro».

Appunto: cosa serve?
«Ad esempio il principio di rispetto reciproco, una solidarietà umanistica, una compartecipazione ai problemi dell’altro... È un errore che sia solo la Chiesa a sentire e agitare il problema degli immigrati. Purtroppo, da laico, devo constatare che le religioni sono portatrici di un impegno solidale di cui la politica attuale è povera».
Lei però costata anche che poi la Chiesa sbaglia a ripiegarsi sui dogmi, a non concedere aperture... Incontrarsi non è semplice.
«Non sono così ingenuo da immaginare che i non credenti e i cattolici possano andare all’improvviso d’accordo: ci saranno sempre punti di dissenso importanti, sull’omosessualità o sull’aborto. Ciò però non vieta di provare a discutere, e se non si trova un accordo si possono sempre trovare dei «buoni disaccordi», dei compromessi... L’importante è non vivere questi conflitti come uno scontro tra intelligenti e idioti, tra persone morali e immorali. Barak Obama, ad esempio, non ha cambiato idea sul diritto della donna a scegliere davanti all’aborto, ma su questo tema il suo discorso politico si è fatto molto più attento ai buoni argomenti portati dalla gente di fede».

A proposito di Obama: Lei nota come abbia vinto le elezioni riaffermando in senso progressista la propria fede. E sottolinea come sia possibile che negli Usa diventi presidente un nero, magari una donna o un omosessuale, ma mai un ateo. Insomma: senza religione non si vince.
«Esatto. Obama ha corretto con una dichiarazione di fede esplicita una situazione che da tempo vedeva i liberal americani troppo sbilanciati contro la religione: negli anni scorsi i conflitti sulle questioni etiche avevano portato a identificare i liberal, nella propaganda repubblicana, come degli immorali. Obama, quando esordisce sulla scena nazionale alla convention del 2004 dicendo che “Anche noi democratici abbiamo un dio formidabile”, compie una rivoluzione. Tanto da battere un conservatore, ma religiosamente freddo, come McCain».

I laici italiani, invece, spesso finiscono col fare pessime figure. Lei cita il «no» al discorso del Papa alla Sapienza.
«Il laico anticlericale, di solito di sinistra, è tanto dannoso quanto l’integralista cattolico, di solito di destra. Chi investe sull’anticlericalismo in politica fa danni quanto chi investe sul fondamentalismo religioso: il rischio è un conflitto tra un’estrema sinistra laicista e una destra integralista cattolica. Alla Sapienza è venuto fuori il peggio di questo anticlericalismo, diventato il surrogato di una sinistra progressista che non sa più in cosa identificarsi e finisce per buttarsi nella guerra contro la Chiesa. Uno schema perdente».

E nel caso Englaro cosa è successo?
«Il peggio che poteva succedere: il conflitto si è estremizzato. Da una parte l’alleanza del governo con la Chiesa, dall’altra l’alleanza dell’opposizione con il fronte anticlericale. E invece di cercare il dialogo ci si è fatti la guerra. In quei giorni ho sentito Ignazio Marino da un lato e Gaetano Quagliariello dall’altro, gridare cose terribile. Poi qualche giorno dopo, placata l’onda dell’emozione, li ho sentiti a Porta a porta parlare più serenamente, segno che era possibile trovare un punto di convergenza, un nobile compromesso, per citare il cardinale Scola».

L’Islam che avanza, una «rinnovata» fede cristiana, un boom di pellegrinaggi... contrariamente a quello che credono molti laici, oggi nel mondo c’è più religione del passato. Magari non riempiono le chiese, però orientano le masse...
«C’è stato un collasso dei vecchi criteri politici, del comunismo, dell’ideologia-marxista, del socialismo democratico... E in questo vuoto ideologico l’opzione “pro religione” o “contro la religione” si offre come un favoloso surrogato, ma che ci porta su una strada sbagliata: dobbiamo trovare nuovi criteri di organizzazione ideologica. Il post-secolarismo è questo: accettare che le religioni si riaffaccino sulla scena pubblica senza pretendere quello che, con Max Weber, in passato da liberali e da laici abbiamo pensato, e cioè che la religione dovesse restare nel chiuso delle coscienze, un fatto privato: questo è impossibile. Quando un laico come Gian Enrico Rusconi dice “Ci va bene quando le chiese si affacciano sulla scena pubblica, ma non quando entrano nel discorso pubblico”, beh, sbaglia. La Chiesa ha diritto di difendere le proprie tesi sull’aborto, il divorzio, l’eutanasia. Non perché noi le si dia ragione, ma perché si possa liberamente confrontarsi».

E gli atei devoti? A Lei non sono simpatici.
«Per fortuna sono più marginali di quanto siano stati i teo-con in America. A mio avviso sono dannosi perché offrono una interpretazione del liberalismo legato alle sue radici storiche, cristiane e cattoliche. E ciò rende il liberalismo “imbevibile”: se vogliamo esportare le nostre idee liberali con sopra un’etichetta “cristiana”, come possiamo proporle a Tunisi, o in Arabia Saudita, o in Asia? È un non-senso. L’ideologia che sottostà al libro di Marcello Pera Perché dobbiamo dirci cristiani è un’ideologia etno-centrata e anti-immigrati, pericolosa: è la metafisica leghista».

Lei a un certo punto, nel suo libro, stende i laici sul lettino dell’analista. Quali sono i problemi più urgenti che devono risolvere?
«Devono levarsi dalla testa l’idea della religione come un nemico, l’idea che la battaglia per il progresso coincida con la scomparsa della religione, l’idea che i credenti siano tutti trogloditi. Il mondo della pluralità creato dalla globalizzazione è oneroso e sconcertante per tutti, anche per il laico, il quale a volte finisce per ritrovarsi di fronte il religioso nei panni dell’alfiere della libertà.

Con il risultato di non comprendere neppure il senso delle parole di Tony Blair quando dice che chi non capisce l’importanza crescente della religione non capisce il mondo di oggi, e di non comprendere perché in Birmania i difensori della libertà siano dei monaci buddisti».

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