Anche lui, come Silvio Berlusconi, avrebbe potuto scatenare una rivoluzione liberale in questo sventurato Paese rovesciandolo come un calzino e dandogli una forma adatta al futuro. Invece, siamo tornati alla minaccia rituale e poco convinta della secessione, agli scenari incrinati e alle lunghe ombre del declino. Ho sempre provato una curiosità affettuosa nei confronti di Umberto Bossi, che proprio oggi compie 70 anni, perché somiglia un po’ a Yankee Doodle Dandy, il solitario partigiano americano della rivoluzione contro gli inglesi, e anche un po’ agli eroici volontari della Irish Brigade, i ribelli irlandesi che andarono volontari nelle file confederate sudiste, dalla parte di Dixieland nella guerra civile americana.
Ma la Padania non è (e per fortuna) Dixieland e Yankee Doodle è da tempo sceso dal ronzino che cavalcava con la penna sul cappello, rullando il tamburo e chiedendo volontari. Da unitarista convinto ho sempre pensato che la secessione padana è pura propaganda romantica e che non si farà mai anche perché ne seguirebbe certamente la guerra civile di cui non si sente davvero il bisogno. Lui, Umberto Bossi, era partito con questo slancio cospiratore e rivoluzionario riuscendo nel miracolo: dare un’identità a un popolo inventato a tavolino, ma che, una volta inventato, esiste davvero e si nutre di suggestioni. Possiamo quindi dire che sarebbe stato bello se Bossi avesse dato impulso alla rivoluzione liberale mancata, ma oggi l’occasione è stata inghiottita dalla storia, la quale scava fosse comuni per gli ideali abbandonati: chi fa le rivoluzioni a metà scava la propria fossa, recita l'antico detto anarchico.
Quella della Lega è una storia che coincide quasi interamente con la storia del suo fondatore, a condizione che non si parta dalla prima lega, quella veneta che mirava alla restaurazione della nazione della Serenissima. Bossi è invece partito dalla materia lombarda e dal basso, suscitando l’invidia dei comunisti: Massimo D’Alema disse a Bossi di invidiarlo, proprio per aver creato non soltanto un movimento ma un comune sentire e un autentico soggetto politico, confermando così che un nuovo soggetto politico per attecchire ha bisogno di un sogno, una follia, un obiettivo impossibile: l’«I have a dream» di Martin Luther King.
Ma, come disse Enrico Berlinguer quando annunciò il proposito fallito di sganciare definitivamente il Partito comunista dalle grinfie sovietiche, ad un certo punto finisce «lo slancio della rivoluzione » e non soltanto di quella d'Ottobre. La propulsione visionaria e rivoluzionaria della Lega e di Bossi sono oggi impallidite benché questo partito abbia raccolto meriti là dove ha governato. Ma lo spirito rivoluzionario delle origini non era di destra o di sinistra, quanto piuttosto borghese: la rivoluzione dei piccoli produttori che generano ricchezza e che si sentono truffati dal «big government» l’equivalente di «Roma ladrona» nel mondo anglosassone che ha sempre generato e seguita a generare quel tipo di rivolte, oggi con i «tea party».
La Lega concepita da Bossi è strategicamente votata all’autonomia paesana, ma tatticamente pronta a fidanzamenti prolungati e matrimoni di interesse per cui ha sempre pronte le carte del divorzio. Il che spiega la perenne fibrillazione in casa berlusconiana per un alleato che non ha mai giurato fedeltà, ma al massimo lealtà. Il Bossi del ribaltone del 1994 scatenò contro Berlusconi una letteratura dell’invettiva all’acido muriatico, sprezzante e furiosa, da querela, di una violenza quasi incomprensibile per quanto fu repentina. Quella furia capovolse le alleanze parlamentari e fu spenta soltanto con un lavoro di respirazione bocca a bocca di Berlusconi che, fatti i conti, non vedeva alternative all'alleanza con Bossi.
Ricordo anzi che Berlusconi, durante la campagna elettorale del 2001, dopo essere riuscito a ricucire personalmente col Senatùr andando costantemente a visitarlo e invitandolo a cena ogni lunedì, ordinava ai suoi candidati (io ero fra loro) di «adottare un leghista, farselo amico, allacciare un rapporto umano». Devo dire che a Brescia, dove fui eletto, conobbi soltanto leghisti ragionevoli e intelligenti, per lo più giovani medici che nulla avevano a che fare con Borghezio, questo grasso scheletro dell’armadio leghista. Berlusconi aveva visto che senza Lega non avrebbe mai potuto vincere, mentre Bossi vedeva che, al contrario, avrebbe sempre potuto scegliere tra i due forni, di destra e di sinistra, giocando il classico ruolo di ago della bilancia.
Da allora l’alleanza ha retto fra alti e bassi che oggi sembrano sempre più bassi, ma periodicamente da sinistra riparte il richiamo della sirena che cerca di convincere la Lega a staccare la spina al governo promettendo di fare il pieno di federalismo a prezzi di concorrenza. Oggi pochi ricordano la celebrazione della Lega e del leghismo che, subito dopo il ribaltone, fece il gruppo dirigente di Repubblica a Roma in un indimenticato pomeriggio al Teatro Argentina, dove Bossi, benché fisicamente assente, fu incoronato come il vero Yankee Doodle della sinistra in un profluvio di incoraggianti esaltazioni che lodavano persino la minaccia di secessione, questo slogan ormai logoro al quale Bossi ancora fa ricorso quando vede il malumore di Pontida. Una sera, poco più d’un anno fa, uscendo dalla sede del partito liberale in via degli Uffici del Vicario vidi Umberto Bossi seduto al tavolo del caffè Giolitti. Anche lui vide me e con mia sorpresa si alzò gridando il mio nome e mi abbracciò come un vecchio amico.
Ho pensato che forse quel che avevamo in comune, che non poteva essere la Padania, era il fatto che ci riconoscevamo nel ribellismo, questo medicamento alla frustrazione di chi sognava le rivoluzioni. Quel che succede ai nostri giorni, la saga familiare con l’aspirante principe ereditario che manda in bestia molte camicie verdi, la sentenza di morte che saltuariamente Bossi agita su legislatura e governo, le sue decisioni ondivaghe e sempre meno decise, accompagnano il declino di una fase politica, oltre che la forma fisica di un uomo esausto. Il giorno prima del suo gravissimo malore Bossi venne in Senato in blue jeans, ci incontrammo alla buvette ed era ancora lo scatenato ragazzaccio dell'inizio, l’inventore spiazzante della propaganda fallica e del celodurismo.
Che cosa resta oggi del grande sogno bossiano? Probabilmente resta ancora la capacità di convogliare la rabbia e la frustrazione del Nord di fronte alla crisi economica e alla devastazione della politica, verso un nuovo isolazionismo. Ma mentre ai bei tempi la Lega, pompandosi un po’,poteva immaginarsi rappresentante di un' area comune al Nord Est e alla Baviera, un'area di grandi produttori che poteva reclamare il principio secondo cui «no taxation without representation», non si pagano tasse a uno Stato in cui chi produce non è rappresentato,oggi la crisi ha scardinato quell’area: i tedeschi negano fratellanza a chi non sia austriaco o olandese, e la Padania, se mai ce ne fu una, è sola e frustrata.
Frustrazione e incertezza, età e tensioni familiari e di partito si sono così accumulate su un uomo che conserva il potere di far vivere o morire il governo, ma che non sa se e come far vivere i sogni che hanno creato il movimento leghista e che oggi, specie dopo l’arrivo al federalismo, sembrano saldi di fine stagione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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