Bossi, Fini e Napolitano quell’inedito triangolo che ora gioca di sponda

RomaCorsi e ricorsi della storia. Perché gli anni passano e cambiano equilibri, alleanze e pure simpatie. In nome, ci mancherebbe altro, del superiore interesse: quel federalismo fiscale che per la Lega è diventato una sorta di chimera epica oltre che - ma è solo una coincidenza - la bandiera da sventolare davanti al popolo padano in vista della tornata elettorale di giugno.
«Per questo sono disposto a tutto», ripete in più occasioni Umberto Bossi ai suoi. Consigliando quasi sempre prudenza, che alle accelerazioni ci pensa comunque lui. E infatti la Lega corre in sordina ormai da qualche settimana e pure l’onta dei cecchini che hanno impallinato al Senato il ddl sulla sicurezza a cui tanto teneva Roberto Maroni non è stata lavata. Perché, spiegava il Senatùr ai suoi, «non è questo il momento di far casino».
D’altra parte, che il leader del Carroccio abbia mantenuto intatto il suo fiuto per le cose della politica nonostante l’incidente di qualche anno fa e la lunga convalescenza è davanti agli occhi di tutti. Così, ci sta che oggi si vada avventurando in quello che qualcuno nel Pdl arriva a definire «un curioso triangolo». La miscela del trittico - Bossi, Fini e Napolitano - è infatti a dir poco esplosiva. Soprattutto a dare uno sguardo al passato, certo non troppo recente ma comunque alquanto intenso. Agli anni, per dirne una, in cui il futuro presidente della Camera giurava che con il leader della Lega non avrebbe più preso «neanche un caffè». Con immediata controreplica dell’interessato: «Saluti ai fascisti di An». Ai giorni, per dirne un’altra, in cui Napolitano sedeva al Viminale e la Digos si fece un po’ prendere la mano facendo irruzione a via Bellerio in cerca dei famosi moschetti. Era il 1996 e di fucili neanche l’ombra. In compenso il Carroccio chiamava in causa il ministro dell’Interno Napolitano e gridava al «regime di Pinochet» (copyright di Mario Borghezio). A chiudere il cerchio, un Bossi che mai come oggi è stato attento al profilo istituzionale. Certo, a fine luglio s’è fatto scappare un dito medio di troppo. Ma è pur vero che rispetto al passato in cui inneggiava ai kalashnikov, minacciava la rivoluzione e consigliava di mettere il tricolore nel cesso i toni sono decisamente più ragionevoli.
«Disposto a tutto», appunto. Anche a un «triangolo» con Gianfranco Fini e Giorgio Napolitano, decisamente poco attraente per il popolo di Pontida che qualche frecciatina su Radio Padania se la concede. Un «triangolo» formalizzato mercoledì scorso, quando Bossi s’è concesso lungamente ai cronisti del Transatlantico per assestare i suoi colpi. Non quello della Costituzione che «non si tocca», una frase che il Senatùr non ha mai pronunciato così e che è stata forzata da agenzie di stampa, giornali e televisioni. Anche perché l’intenzione del leader della Lega è esattamente opposta, dal federalismo fiscale a quello istituzionale. Tanto che il capogruppo alla Camera Roberto Cota si affretta a dire che «nessuno vuole cambiare la Costituzione senza un dibattito parlamentare». Appassionata, invece, è stata la difesa del Colle e l’elogio a Napolitano «figura di garanzia». E pure su Fini è stato netto. Primo: «Credo abbia imparato tanto da Tatarella». Secondo: «Fa bene il suo lavoro di presidente della Camera e cerca di garantire dei rapporti il meno tesi possibile». Terzo: «Fa bene a guardare avanti e i suoi dovrebbero capire la complessità del ruolo che ricopre». Insomma, quasi un panegirico.
D’altra parte, lo dice Maroni, il federalismo «è la ragione della nostra alleanza con Berlusconi» e il Pdl, «un paletto oltre il quale la Lega non può tollerare che si vada». E per riuscire a chiudere la partita «entro maggio», come chiede il ministro dell’Interno, è chiaro che la sponda del Quirinale e quella del presidente della Camera finiscono per essere decisive.

La prima nel tentativo di recuperare i rapporti con il Pd e sperare ancora una volta nella loro astensione dopo le frizioni degli ultimi giorni, la seconda per evitare sorprese sull’andamento dei lavori di Montecitorio e per cercare di attenuare le perplessità e le resistenze di quella parte di An radicata soprattutto al Sud. È per questo che Bossi tesse la sua tela e preferisce il profilo ecumenico. Perché - ripete ai suoi - «non è questo il momento di fare casino».

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