Bossi: se toccano le pensioni marciamo su Roma

Cristiano Gatti

nostro inviato a Treviso
Capo, di’ qualcosa di padano. Rivogliono musica per le loro orecchie, implorano sfide muscolari e pugni sul tavolo. Piangono sulla Lega che fu. Non tutti, ma sempre di più. Frondeggiano. Chiudono le sezioni, lucidano come una reliquia del '15-18 il vecchio Tanko, rimpiangono a ciglio umido i tempi del celodurismo. È una ripresa così, per Umberto Bossi: nessuna euforia, molti problemi. Almeno qui in Veneto, nel suo caro Veneto della rivolta Serenissima, che lo accoglie in una fresca serata fuoriporta, alla Fiera di Treviso. È una visita per capire l'aria che tira, ma anche per spegnere i primi focolai di infiammazione. Se basti un comizio per ricreare un'atmosfera, con forti richiami all'antica missione e all'originaria passione, saranno i prossimi mesi a dirlo. Ma già da adesso si può cogliere come evidentemente serva dell'altro. Dopo le parole, qualcosa di pratico e di evidente. Una scossa. Una scossa qualunque. Magari sul voto agli immigrati, la novità più temuta in zona, come il trapano del dentista.
Situazione strana e particolare, rispetto per esempio alle Pontide dell'epopea autonomista. Sotto il tendone trevigiano, s'incrociano le delusioni post-elettorali e le speranze - vaghe, generiche, però impellenti - di un ritorno alle origini. Per la Lega, difficile negarlo, si è aperta da un po' una vera e propria Questione Veneta. Come venire a capo della Questione?
Intanto, il Capo viene alla Questione per capirci un po' di più.
Ad attenderlo, una platea di fedelissimi. I veri scontenti, che manifestano sui giornali locali e nei bar di paese una delusione da reduci, preferiscono girare alla larga. Il Capo arriva alle dieci, a festa iniziata, e raccoglie la prima ovazione. Parla subito, parla delle cose che qui vogliono sentire. «Ci stiamo per incazzare davvero. Nei prossimi mesi la Lega si muoverà in massa, da cattiva. Faremo sentire le nostre ragioni a quei vagabondi e a quei ladri di Roma. Mi sono fatto promettere da Berlusconi che lui porterà in piazza qualche milione dei suoi. Noi ci saremo con i milioni nostri. Provi Prodi a toccare le pensioni: stavolta davvero facciamo la marcia su Roma...».
Un boato. Bossi fornisce spiegazioni: «L'altro giorno, con Berlusconi e Tremonti, abbiamo tradotto parola per parola il programma elettorale dei conservatori inglesi. Neppure loro se la prendono con i lavoratori. Ormai, in Europa, è rimasto solo Prodi. Per far quadrare i suoi conti, vuole tagliare le pensioni. Un diritto di gente che ha versato tanti soldi. Lo sappia, Prodi, il grande bastonatore dei lavoratori: noi facciamo la guerra, se è il caso. Diamo fuori da matto, non scherziamo affatto».
Quanto invece all'ideale supremo delle contrade nordiche, il federalismo, Bossi va via molto più liscio: «Questione di pochi mesi. Abbiamo già definito tutto: Veneto e Lombardia, le regioni che tengono in piedi l'Italia, stanno preparando la richiesta perché si applichi la Costituzione, là dove obbliga lo Stato a devolvere molte materie in sede locale. Così, finalmente, la devoluzione e il federalismo saranno compiuti...».
Un altro boato. Basta che il disk-jockey metta i dischi giusti, e come d'incanto la temperatura risale. Il problema, se mai, sono quelli là fuori, in giro per il Veneto profondo, dove ormai tanti militanti vivono la più acida nostalgia. L'Amarcord dissidente. Sognano e rimpiangono i primi tempi, i tempi dei superlativi, dei ruggiti, delle canottiere. Il consigliere provinciale Marco Marcolin: «Dobbiamo tornare ad essere quello che eravamo e che purtroppo non siamo più». Il senatore Piergiorgio Stiffoni: «Federalismo è la parola d'ordine: abbiamo già perso cinque anni per niente...».
Rialzano la testa anche gli antichi dissidenti, i transfughi, gli espulsi. Tutti pronti a fare la voce grossa, adesso. Guarda caso, proprio adesso che il capo ha qualche energia e qualche decibel in meno nel leggendario mitra lessicale, causa i noti e tremendi problemi di salute. Una volta gli sarebbe bastato un «bah», per metterli tutti a cuccia. Adesso che la voce è inevitabilmente meno abrasiva, meno urticante, meno spaventosa, il leader prova a colmare il deficit baritonale con la forza delle idee. Dei ragionamenti. Ma è sin troppo evidente che per una buona fetta della Lega, nata e cresciuta cullandosi proprio sui toni tellurici del grande combattente, quella di adesso non sia più la stessa musica. Vogliono altro, rivogliono il rock duro della rivoluzione totale, come quando bastava urlare secessione per scuotere le travi dei palazzetti.
Nella serata di Treviso, si registra solo un primo riavvicinamento. L'applauso dei fedelissimi c'è, almeno quello. Nelle sue spiegazioni, Bossi preme tasti che in zona mantengono intatto tutto il loro fascino: nessuno si rassegna, nessuno cede, nessuno mette le pantofole. «Mi raccomando, mangiate tante bistecche, perché nel prossimo mese comincia lo spettacolo».

Come sempre, secondo un calendario interno che è ormai rituale, l'autunno della Lega sarà memorabile. Opposizione dura, piazze piene, Prodi tumefatto. Questo assicura il Capo, con tutta la voce che gli resta. Nessuno, una volta, avrebbe dubitato. Stavolta, chissà.

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