La Bottega degli affari impara da Marchionne e non chiede più aiuti

Confindustria stringe un’intesa con Tremonti: lo sviluppo si farà con le risorse disponibili

Due, tre fatterelli nuovi che riguardano le nostre botteghe degli affari. I rappresentanti dell’economia si sono seduti attorno ad un tavolo per ragionare su come «uscire indenni dalla ripresa»: industriali, commercianti, artigiani e cooperatori, insieme ai sindacati. Hanno scelto un palazzo che ha un significato: non già quello del governo e neanche quello della Confindustria, ma il terreno neutro dell’Abi. Nessuna primazia; si tratta di un’autoconvocazione delle parti sociali. Alle quali è stata fatto arrivare dal governo un messaggio preciso. Come direbbe il ministro del lavoro Sacconi: «non pensate di apparecchiare la tavola e poi divorarvi aragoste e champagne, sapendo che il conto lo paga qualcun altro». Insomma, non c’è un euro. Nel dettaglio gli autoconvocati hanno messo la testa su tre temi fondamentali. Come estendere la Cassa integrazione in deroga anche per i prossimi mesi. Come avvicinare i contratti di lavoro alle aziende, allontanandoli, nel medesimo tempo, da Roma. E come semplificare l’approccio con il fisco e la burocrazia, che blocca un numero ingente di investimenti. Le solite cose, in fondo. Ecco perchè ciò che conta davvero è il contesto. E da questo derivano i due, tre fatterelli nuovi. Vediamoli.
Implicitamente si è stretto un patto con il governo e il suo ministro dell’Economia. Il punto di partenza è quello che Giulio Tremonti sta dicendo in tutti i modi: la crescita non si fa con il deficit. Dunque nessuno faccia affidamento sui quattrini pubblici. Un messaggio che Sergio Marchionne ha da tempo già fatto proprio affrancando Fiat dal vecchio modello di azienda sorretta dai quattrini pubblici. Un cambio cultural-aziendale che ha permesso al Lingotto di ritagliarsi ampi margini di manovra nelle trattative sindacali. Per quanto riguarda la cassa integrazione si tratta di misure che sono già previste dai saldi di finanza pubblica. O comunque agilmente recuperabili. Mettere insieme tutte le sigle della produzione e del commercio italiano, sindacati compresi, traccia dunque una linea Maginot della finanza pubblica. In corsa non si può cambiare cappello. E ciò che gli autoconvocati non chiedono collettivamente non potranno più chiudere individualmente. Smentirebbero se stessi. L’agenda per lo sviluppo di cui parla Tremonti si deve fare con le risorse che ci sono: ad esempio i fondi europei per lo sviluppo delle aree depresse. Lo scambio con il governo sarà dunque di tipo normativo-burocratico: una linea di credito già attivata, ma il cui tiraggio deve essere semplificato.
La competizione sta iniziando a dare i suoi frutti tra le associazioni. Sul lato sindacale la Cgil si è lentamente avviata a un processo per cui non può e non vuole essere sempre e comunque fatta fuori dagli accordi. Diciamo così: l’asticella della sopportazione del rigore finanziario e normativo si è fatta un po’ più alta e la confederazione di Epifani e Camusso conosce bene il salto che deve fare. Sul fronte degli affari il paziente debole è quello sulla carta più forte: la Confindustria. Emma Marcegaglia ha beccato in fila un paio di schiaffoni associativi. L’organizzazione scricchiola, con un numero di soci sempre più scontento su sempre più fronti. E poi la Fiat, l’ex azionista di maggioranza. Che ha minacciato di sbattere la porta e prosciugare, insieme al peso dell’organizzazione, i conti correnti con i quali pagare i conti di viale dell’Astronomia. Il presidente della Confindustria ha così accettato di sedersi al tavolo degli autoconvocati e per di più allontanandosi dal suo palazzone dell’Eur. Confindustria, che solo pochi mesi fa, non aveva inviato neanche uno dei suoi molteplici vicepresindenti all’atto di nascita di Rete imprese Italia, ha evidentemente cambiato rotta.
Si tratta di novità importanti. Se davvero le botteghe degli affari comprendono come sia indispensabile proporsi come soggetto unico nei confronti del governo abbandonando rivendicazioni sulla spesa pubblica, si potrebbe rompere quel muro di inerzia che contraddistingue le nostre burocrazie. Ci diceva provocatoriamente un’industriale che ha un certo peso nella sua organizzazione: «Occorrerebbe mettersi intorno a un tavolo, governo e parti sociali, tutte.

E decidere di sospendere per due-tre anni il titolo V della Costituzione». Chiaro il concetto? Un modo certo grossolano e volutamente provocatorio per denunciare l’insostenibilità di fare affari in un Paese in cui tutti hanno l’ultima parola.

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