Dopo avere scritto libri, dopo essere tornati quasi tutti in libertà, i 9 brigatisti del commando del sequestro Moro si sono dati la consegna del silenzio. Non una parola, non una riflessione alla vigilia del trentesimo anniversario dell'uccisione di Aldo Moro. Mario Moretti, il capo di quel sequestro, avvicinato all'uscita del carcere di Opera è irremovibile: «Nessuna dichiarazione». Esce tutti i giorni di primo mattino per lavorare come consulente informatico, in carcere rientra solo a tarda sera. Anche Raffaele Fiore, l'uomo meno conosciuto, quasi più invisibile di quell'assalto, è libero. Il 16 marzo del 1978 faceva parte del gruppo di via Fani: travestito con la divisa dell'Alitalia ha sparato insieme ad altri tre brigatisti alla scorta dello statista. Arrestato nel 1979 e condannato all'ergastolo, ora è in regime di libertà condizionata. Vive a Piacenza, lavora in una cooperativa (Futura) che si occupa del reinserimento degli ex detenuti.
È lì che lo incontriamo, che proviamo a chiedergli di mettersi davanti a una telecamera e di raccontarsi. Lintervista sarà trasmessa stasera su Retequattro.
«Quella storia si è chiusa da sé - dice -. Ognuno, in quella storia, ne è uscito in qualche modo».
Cosa significa chiudere con quella storia?
«Significa prendere atto che è finita. Al massimo si può riflettere sugli errori fatti, su quello che si poteva fare e su quello che non si doveva fare».
«È stata una riflessione o un pentimento?».
«È stata una riflessione critica, un pentimento no. Parlare di pentimento non ha senso».
Ha parlato però non solo di errori ma anche di cose giuste. Quali sarebbero?
«Il fatto di ribellarsi era una cosa giusta, però bisognava capire come farlo. Noi abbiamo individuato un metodo ma alla lunga la storia non ci ha dato le risposte che volevamo, la società andava letta in un'altra maniera. Io, allora, credevo che quella fosse la strada giusta. La lotta armata è una questione molto complessa, nel senso che non si erano messe in conto tutta una serie di cose tra le quali 30 anni di galera, l'ergastolo».
Ma, avendo fatto quello che ha fatto dove pensava di arrivare?
«Non lo so. Avevo 21 anni, non riflettevo. A quell'età non si dà peso al significato di una singola parola».
E ora che di anni ne ha 51 cosa si sente di dire ai familiari delle vittime?
«I familiari delle vittime delle Br sono come i familiari dei brigatisti uccisi. Certo cè un grosso dispiacere, un rammarico, ma più di questo cosa possiamo dire?».
Anche in questo caso, è un rammarico o un pentimento?
«È un rammarico. Quando si fanno delle azioni di un certo tipo si sa che si incorre a dare dei dispiaceri ad altri. Quando sequestravamo una persona lo facevamo per scardinare un progetto, non per fare del male a lui e alla sua famiglia».
Raffaele Fiore non ha soltanto aperto il fuoco in via Fani. È stato condannato anche per aver partecipato all'esecuzione di Fulvio Croce, presidente degli avvocati di Torino e di Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa.
Un libro del giudice Imposimato su Moro si intitola «Doveva morire».
«Se lo dice lui. Io non sarei così categorico. Secondo me se avessero fatto qualche sforzo in più lo avrebbero potuto salvare. Non è vero che era tutto scritto... Le possibilità di trattativa c'erano».
Fare qualche sforzo in più però voleva dire aderire alle vostre condizioni, allo scambio tra l'ostaggio e i prigionieri che avevate indicato?
«No, c'erano altri margini, c'erano mille modi ma non hanno voluto. Non sono stato io a scrivere, come ha fatto il Papa, di rilasciarlo senza condizioni: evidentemente c'era qualcosa di scritto da parte loro. Ma non posso dire cosa pensavano Fanfani, Andreotti, Berlinguer».
E lei cosa pensava?
«Speravo che si potesse aprire uno spiraglio di trattativa e si potesse proseguire sul piano politico».
Qualcuno sostiene che oggi, con Rifondazione fuori dal Parlamento, ci sia il rischio di una nuova ondata di estremismo.
«No. Non c'è una spinta politica e sociale per una nuova esperienza simile alla nostra, io non ne vedo i presupposti».
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