Maledizione, ce n’è voluta, ma finalmente qualcuno rompe il silenzio codardo e si ribella. È un bel giorno, per questa nazione: si spalancano le finestre ed entra una folata di aria fresca. Standing ovation per Concita De Gregorio, la nuova direttrice de l’Unità: a poche settimane dall’insediamento già solleva una questione odiosa, troppo a lungo taciuta, una vera emergenza che dura da più di mezzo secolo, per fermarci soltanto alla storia della Repubblica.
Queste la parole che per tanto tempo abbiamo atteso, e che finalmente qualcuno ha il coraggio di scrivere: «Viviamo in un paese familista, dove anche per fare il netturbino, non solo il notaio, devi essere amico, meglio parente di qualcuno. Marina Berlusconi entra in Mediobanca. Risulta difficile immaginare che sia per meriti propri».
Ovviamente l’esempio è scelto a caso. Non bisogna fermarsi all’esempio: è il principio che conta. La questione mi trova particolarmente sensibile. Per capire da che parte sto, devo fare un velocissimo riferimento personale.
Non sono figlio di qualcuno, sono figlio di un signor nessuno. Mio padre, negli anni Cinquanta, s’è preso la briga di cercare lavoro in Australia, quando l’Australia era l’Australia, non un nuovo paradiso per soggiorni chic. Quaranta giorni di nave, per dire solo il viaggio.
Io sono nato lì, mentre i miei genitori lavoravano come negri, metafora niente affatto forzata, visto che allora gli italiani erano i negri d’Australia. Quando, negli anni Sessanta, mi hanno riportato nel loro Paese, facendolo diventare anche il mio, hanno continuato a lavorare per pagarmi il liceo e l’università.
Poi, persino loro ad un certo punto hanno dovuto applicare il famoso comandamento che non sta scritto su nessuna tavola: undicesimo arrangiarsi. E io, come i miei fratelli, in qualche modo ci ho provato. Ciascuno ha preso la sua strada, la lunga strada dei figli che non sono figli di.
Chiudendo la parentesi familista, spero risulti abbastanza chiaro quanto sia sincero il mio appoggio alla battaglia, sollevata da quel gran pezzo di penna che indubbiamente è Concita De Gregorio. Per noi che non siamo figli di qualcuno è un 25 aprile, una Primavera di Praga, una caduta del Muro di Berlino.
Adesso già pregusto le prossime puntate. Perché se Marina Berlusconi dirige quel che dirige non certo per meriti suoi, non è comunque la sola. Mettiamo pure che lei, nata in un’altra casa, adesso sarebbe una pettinatrice (a naso, qualcosa mi dice che sarebbe comunque la migliore pettinatrice del lombardo-veneto). Diamolo per chiarito, il caso Marina, manager di livello mondiale sottratta alle messe in piega solo per una pura botta di sedere. Sono certissimo però che adesso l’Unità, sferzata dalla sua direttrice, darà seguito alla denuncia con il resto dello scandalo. Se al momento non hanno idee, posso tranquillamente fornire qualche pista iniziale. Altri nomi. A meno che.
A meno che non mi si dica che sto solo servilmente difendendo la padrona. In questo caso, credo avranno gioco facile ad umiliarmi in pubblico, loro che lavorano in coscienza e non sono servi di nessuno. A loro, schiavi soltanto della propria coscienza, risulterà molto semplice dimostrare come tutti gli altri stiano dove stanno per esclusivi meriti personali e per invidiabili qualità naturali.
Cioè, in altre parole: Walter Veltroni non è arrivato dove è arrivato solo perché figlio di Vittorio, storico dirigente Rai, primo direttore del primo telegiornale. Massimo D’Alema non è quello che è solo perché figlio di Giuseppe, funzionario Pci, deputato tra il ’68 e l’83. Dario Franceschini non è Dario Franceschini solo perché figlio di Giorgio, tra i fondatori della Dc e deputato negli anni Cinquanta. Rosa Russo Iervolino non è la Iervolino solo perché figlia di Maria De Unterrichter, eletta alla Costituente del ’46, deputato dal ’48 al ’63, più volte sottosegretario, nonché di Angelo Raffaele Jervolino, a sua volta membro della Costituente, poi deputato, senatore, ministro Dc. Matteo Colaninno non sta ai vertici Pd solo perché figlio di Roberto, industriale, finanziere, nuovo padrone di Alitalia. Così Andreatta Junior, Filippo: non sta ai vertici di Finmeccanica e del nuovo Pd solo perché figlio del compianto economista, maestro di Prodi, Beniamino. Cristiano Di Pietro non è un nuovo capo dell’Italia dei Valori solo perché figlio di Tonino. Luca Sofri, che scrive anche su l’Unità, non è Luca Sofri soltanto perché figlio di Adriano. Daniela Cardinale non ha raccolto quello che ha raccolto solo perché figlia di Salvatore, deputato Dc dall’87 al ’94, poi ministro delle Comunicazioni nei governi D’Alema e D’Amato. Bianca Berlinguer, mezzobusto Tg3, non sta lì solo perché figlia di Enrico, glorioso segretario Pci.
No: al contrario di Marina Berlusconi, tutta questa gente – assieme ad altra che richiederebbe altre pagine – sta lì soltanto perché s’è fatta una gavetta spaventosa. Costellata di polvere, lacrime e sangue. Di più: come potrebbe spiegare la direttrice De Gregorio, e come peraltro ha già spiegato la figlia di Veltroni, aspirante regista, casa a New York, un sacco d’altre belle cose a poco più di vent’anni, il cognome pesa. Una palla al piede. Un macigno che spiaccica. È durissima, la vita del figlio di: vittima dell’invidia, deve continuamente guardarsi da gente che mette i bastoni tra le ruote. Bisogna farcela “nonostante” il cognome, questa la verità. Alle volte, noi senza un cognome, nemmeno ci rendiamo conto della fortuna sfacciata che ci è capitata...
Vogliamo chiuderla qui? Forse è meglio per tutti. Si arriva al punto che la voglia di ironia sfuma nella depressione totale.
Anche perché, su questa piaga secolare del familismo italiano, grava da sempre una sottilissima, ma insopportabile asimmetria. Provo a dirla con parole mie, convinto d’interpretare il sentimento dei parecchi italiani che non sono figli di qualcuno.
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